Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Eugenio Roscini Vitali

L’aggressivo sfruttamento delle risorse energetiche che negli ultimi anni ha cambiato la faccia politica e sociale dell’Africa, non ha certo portato la ricchezza e lo sviluppo sperato, la  pace ed il benessere promesso da chi invece ha girato la testa di fronte a tragedie umanitarie quali il Darfur o il Corno d’Africa, il Nord Kivu o il Sahara Occidentale, il Delta del Niger o le foreste dell’Uganda settentrionale.

Al contrario, la politica del profitto ha sconvolto la vita di un numero incalcolabile di persone, vittime di un saccheggio incontrollato che ha ricompensato i potentati ed ha premiato l’egoismo di quelle nazioni che in cambio di un paventato sviluppo economico hanno dato vita ad una nuova corsa all’Africa, ad una nuova forma di colonialismo politico-militare che in chiave moderna ricorda quello che tra la fine dell’Ottocento e l'inizio della prima guerra mondiale si spartì il continente.  Ed è in questo contesto, in un continente come l’Africa, dove il 40% della popolazione “vive” con meno di un dollaro al giorno e un numero molto maggiore “sopravvive” con meno di due, che il Ciad rappresenta l’ennesimo esempio di come i poveri pagano sempre il prezzo più alto. 

Pressato dalla fame e dei cambiamenti climatici, dalle crisi umanitarie e dalle scorribande dei predoni, sovrani incontrastati del Sahel e dell’Africa sub-sahariana, dalle crisi regionali e dalla concreta possibilità di una guerra civile, il Ciad sconta infatti, più di altri Paesi, l’illusione di una “ricchezza” che probabilmente non arriverà mai. Quasi dieci milioni di abitanti che negli ultimi 40 anni hanno assistito all’irreversibile desertificazione del loro Paese e alla conseguente riduzione delle acque della loro unica fonte di sostentamento, il lago Ciad, passato da una estensione di 25 mila chilometri quadrati a poco più di 5 mila; dieci milioni di persone che hanno riposto tutte le loro speranze sulla pioggia di dollari che sarebbe dovuta arrivare con l’oro nero ma che non ha nemmeno bussato alla porta.

Sviluppatosi alla fine del secolo scorso, lo sfruttamento dei giacimenti non ha infatti cambiato lo standard di vita dei ciadiani e, per ora, i profitti derivanti dai prezzi record del greggio registrati negli ultimi anni hanno solo rimpinguato le casse del governo. Entrate gestite dalle autorità, in gran parte appartenenti all’etnia Zaghawa e al Mouvement Patriotique du Salut (MPS), che hanno praticamente dilapidato centinaia di milioni di dollari per armare l’esercito e premiare e la classe politica più accondiscendente alla decisioni della presidenza. Una ricchezza il cui utilizzo è diventato soprattutto strategico, ben lungi dall’alleviare la condizione di povertà in cui versa il Paese, ma elemento importante per mantenere al potere chi di fatto ha favorito una endemica situazione di instabilità.

Il fallimento brucia ancora di più se si ripensa al 2000, a quando la Banca mondiale ed alcune agenzie pubbliche e private di credito decisero di sostenere con 370 milioni di dollari il Chad-Cameroon Oil and Pipeline. “Un progetto per lo sviluppo”, conosciuto anche come “Doba oil”, da quattro miliardi e duecento milioni di dollari, appaltato ad un consorzio di compagnie petrolifere comprendenti la Exxon-Mobil, la Chevron-Texaco e la malese Petronas. Il fine ultimo era la realizzazione e l’apertura di 300 pozzi petroliferi e la costruzione di un oleodotto lungo 1.070 chilometri che attraverso la foresta pluviale avrebbe collegato la città di Doba, nel Ciad meridionale, al porto camenurense di Kibri, nel Golfo di Guinea. Un concetto completamente rivoluzionario nel finanziamento ai Paesi poveri, il più grande in tutta l’Africa, diverso dai classici prestiti a fondo perduto e i cui profitti sarebbero dovuti servire a ridurre la povertà in Ciad ed in Camerun, a stimolare il microcredito, ad avviare nuove attività, a sovvenzionare l’acquisto di macchinari agricoli, a realizzare scuole, ospedali, ed infrastrutture.

In realtà il Chad-Cameroon Oil and Pipeline ha provocato danni irreversibili: flussi migratori e violazioni dei diritti umani collegati alla realizzazione dell’opera, confisca delle terre agricole senza risarcimenti e gravi danni sociali ed ambientali. Un ecosistema distrutto, malaria e malattie della pelle causate dal misterioso smaltimento dei rifiuti tossici, quasi cento villaggi scomparsi, intere tribù pigmee costrette a rinunciare ad intere aree, crollo nell’esportazione del cacao e del caffè, disoccupazione, violenza e crimine alle stesse, così come la prostituzione e i casi di HIV. Tutti fatti denunciati dalle popolazioni locali e dalle Organizzazioni non governative internazionali, così come i 225 mila barili di greggio prodotti ogni giorno dal consorzio; i profitti annui della Exxon-Mobil, pari a 40 volte il Pil del Ciad; i  36 milioni di petrodollari ricevuti da Deby nel 2006, utilizzati per  armare la guardia presidenziale, “vincere” le elezioni e sconfiggere i ribelli del Rally for Democratic Forces, e il miliardo e 200 milioni di dollari  incassati dal Ciad nel solo 2007.

Con un tasso di analfabetismo che tocca 87% e un reddito pro capite annuo pari a 150 euro all’anno, il Ciad è tra i cinque Paesi più poveri al mondo: 170mo su secondo 179 nazioni secondo il rapporto 2008 delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano; 173mo su 180 per la speciale classifica sulla corruzione stilata  dall’associazione non governativa Transparency International. La maggioranza della popolazione vive sotto la soglia della povertà estrema, soltanto il 10% ha accesso ai servizi sanitari di base e meno del 30% può disporre di acqua potabile di buona qualità; il tasso di mortalità infantile fino ad un anno di vita colpisce 102,6 neonati su mille e la speranza di vita alla nascita è di poco superiore ai 50 anni. In Ciad sono presenti 12 campi profughi che accolgono più di 260 mila rifugiati, 220 mila civili provenienti dal Darfur e 40 mila dalle foreste della Repubblica Centro Africana. Gli sfollati interni, fuggiti dai villaggi in seguito alle incursioni delle milizie sudanesi e al conflitto interno tra forze governative e ribelli, sono circa 170 mila.

Una situazione tragica, soprattutto perché negli ultimi dieci anni, anziché mantenere gli accordi presi con la Banca Mondiale - 80% delle entrate destinato a programmi di sviluppo (sanità, istruzione e infrastrutture) e il 10% a un fondo bancario riservato alle generazioni future - il governo di N’Djamena ha preferito portare le spese militari dai 14 milioni di dollari del 2000 ai 315 milioni di dollari del 2009, una cifra che supera abbondantemente il 4% del Pil (4,2% nel 2006) e che Deby giustifica con il rischio di una possibile invasione sudanese. Grazie ai partners principali, Francia, Stati Uniti e Cina, alla costante presenza della Legione Straniera e ai soldi della Exxon-Mobil e della Elf, oggi N’Djamena ha infatti uno dei più equipaggiati e preparati eserciti dell’Africa sub-sahariana.

Oltre agli Aermacchi SF-260 strappati alla Libia durante la guerra per la striscia di Aozou e ai vecchi mezzi sovietici (i tank T-55, i veicoli da trasporto truppe BTR-80, i blindati BRDM, gli elicotteri Mil Mi-8/-17, gli aerei trasporto Antonov An-26 e quelli da attacco al suolo e supporto Sukhoi Su-25 Frogfoot), il Ciad dispone degli anfibi francesi ERC 90 Sagaie e dei veicoli americani Humvee, gli High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicle usati dall’esercito Usa in Iraq ed Afghanistan; dei missili terra-aria FIM-92 Stinger, degli anticarro a medio raggio Milan e sistema d'arma BGM-71 Two; degli aerei da trasporto C130-Hercules e dei velivoli da attacco leggero Pilatus PC-9M; degli elicotteri da trasporto Mi-171 e di quelli da attacco Mil Mi-35.

Anche in Ciad il binomio petrolio-armi quindi funziona, sicuramente meglio di quello petrolio-sviluppo e almeno quanto il progetto “Doba oil”, una speranza di affrancamento dalla povertà che si è trasformato nel core business delle spese militari, fatto che nel settembre 2008 ha portato la Banca Mondiale a ritirate il proprio sostegno al finanziamento. E certamente non è di aiuto all’economia nazionale che, a causa del brusco crollo dei prezzi petroliferi, negli ultimi anni ha visto un andamento del Pil in vertiginosa discesa, passando dai livelli record del 2004 (+33,6%) al –0,4% del 2008. Una situazione economica che desta preoccupazioni e che a causa dell’instabilità regionale e del sistema di governance, uno dei più corrotti al mondo, è destinata a peggiorare, almeno per quegli otto milioni di ciadiani che già vivono sotto la soglia della povertà estrema. 

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