USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

Alla fine del 2004, l’esercito americano occupante in Iraq, sferrò una durissima offensiva sulla città di Falluja con metodi che rientrano abbondantemente nella definizione di crimini di guerra. Il prezzo pagato dalla città irachena, oltre alle migliaia di civili massacrati, continua a farsi sentire pesantemente ancora oggi, come ha messo in luce un recente studio epidemiologico condotto da tre ricercatori britannici, con un’incidenza di tumori, malattie genetiche, deformità e mortalità infantile addirittura superiore a quella rilevata tra i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki.

A condurre il primo studio di questo genere su quasi cinquemila residenti della città di Falluja, sono stati i medici Chris Busby, Malak Hamdan ed Entesar Ariabi, i quali assieme ad un team di ricercatori, tra gennaio e febbraio di quest’anno, sono stati in grado di tracciare finalmente un quadro esaustivo delle conseguenze a lungo termine della battaglia scatenata dalle forze statunitensi. Il rapporto, intitolato “Cancro, mortalità infantile e rapporto tra i sessi alla nascita a Falluja, Iraq 2005-2009”, è stato pubblicato qualche giorno fa sull’International Journal of Environmental Studies and Public Health (IJERPH).

La causa principale dell’emergere di dati così preoccupanti tra la popolazione di Falluja è l’impiego di uranio impoverito da parte degli americani. Utilizzato come componente per granate e munizioni, l’uranio impoverito risulta particolarmente efficace per la sua elevata densità. Dopo l’impatto con l’obiettivo, l’esplosione determina la fuoriuscita di uranio nell’area circostante, dove può rimanere anche per molti anni provocando danni irreparabili alle persone. L’uranio impoverito attacca i linfonodi e il DNA, causando tumori e gravi malformazioni genetiche.

Proprio la percentuale di malati di cancro a Falluja da cinque anni a questa parte è aumentata di quattro volte e le forme in cui esso si sviluppa appaiono molto simili a quelle riscontrate nelle due città giapponesi dopo il lancio delle bombe atomiche nel 1945. La drammaticità della situazione è evidenziata anche dal rapporto con i paesi circostanti. Nella città irachena, a una settantina di chilometri a ovest di Baghdad, il numero di malati di leucemia è 38 volte superiore rispetto all’Egitto, alla Giordania e al Kuwait.

Il numero di bambini affetti da cancro é poi dodici volte più alto, così come la diffusione del cancro al seno è dieci volte superiore. I livelli d’incidenza di linfomi e tumori al cervello tra la popolazione adulta sono ugualmente al di sopra della media. La mortalità infantile tocca gli 80 decessi ogni mille nati, un numero cinque volte maggiore di quello normalmente registrato in Egitto e in Giordania e otto volte più grande rispetto al Kuwait.

Possibilmente ancora più preoccupante è l’inversione del rapporto tra i sessi alla nascita. Normalmente, nascono 1050 maschi per ogni 1000 femmine, mentre a Falluja tra il 2004 e il 2009 si è scesi ad un rapporto di 860 maschi per 1000 femmine. Un’alterazione quest’ultima già manifestatasi a Hiroshima al termine del secondo conflitto mondiale e che indica il verificarsi di un grave evento mutageno. Mentre i maschi hanno un solo cromosoma X, le femmine ne posseggono due, così da poter rimediare alla perdita di un cromosoma X in seguito ad un danno genetico come quello causato dagli effetti dell’uranio impoverito.

Prima della pubblicazione di questo studio, erano stati parecchi i segnali d’allarme lanciati da Falluja. Nell’ottobre dello scorso anno, ad esempio, alcuni medici iracheni e britannici avevano chiesto all’ONU di avviare un’inchiesta sulla diffusione di malattie collegate all’esposizione a radiazioni nella città. In quell’occasione veniva rivelato come le donne erano terrorizzate dall’idea di partorire figli a causa dell’aumento di deformità segnalate negli ospedali di Falluja. Nel settembre 2009, l’ospedale più grande della città contava 170 neonati, dei quali il 24 per cento morti entro i primi sette giorni di vita. Di questi, ben il 75 per cento presentava una qualche deformità.

Alle presenti e passate accuse, il Dipartimento della Difesa americano ha sempre sostenuto che non esistono studi qualificati che dimostrino il legame tra l’elevata incidenza di malattie genetiche con le azioni delle proprie forze armate. Una carenza di dati scientifici dovuta in larga parte anche all’ostruzionismo delle stesse autorità statunitensi e dei regimi da esse sostenuti. Proprio l’attività di ricerca condotta a Falluja, era stata infatti ostacolata dai media e dai rappresentati locali del governo di Baghdad che avevano bollato i medici britannici come terroristi.

Nonostante la prevalenza di cittadini sunniti, legati al regime di Saddam Hussein, la città di Falluja era stata una delle aree relativamente più pacifiche dell’Iraq dopo l’invasione americana. Il malcontento iniziò tuttavia a diffondersi dalla fine di aprile del 2003 dopo che l’esercito statunitense sparò indiscriminatamente su una folla di cittadini che protestavano contro la trasformazione di una scuola locale in una base USA uccidendo 17 persone. La reazione degli abitanti di Falluja trasformò la città nel centro di resistenza sunnita all’occupazione americana.

Il 31 marzo del 2004, poi, quattro dipendenti della famigerata compagnia privata di sicurezza Blackwater, alla guida di un veicolo, vennero bloccati e fatti scendere per poi essere picchiati e uccisi. I loro corpi dati alle fiamme sarebbero stati successivamente trascinati per le vie della città e appesi ad un ponte sull’Eufrate. L’uccisione dei quattro cittadini americani scatenò la reazione dell’esercito occupante, che nel mese di maggio fu però costretto ad abbandonare l’assedio di Falluja malgrado l’imbarazzante superiorità militare.

Nel novembre dello stesso anno, dietro autorizzazione del governo-fantoccio iracheno, guidato dall’allora primo ministro Ayad Allawi, venne scatenata una nuova e più violenta offensiva contro quella che era stata definita la roccaforte degli insorti iracheni. La città venne circondata e tutti gli abitanti rimasti vennero dichiarati “combattenti in armi”. Numerose famiglie furono uccise dagli americani nel tentativo di fuggire da Falluja, mentre durante l’attacco le forze USA fecero largo uso di fosforo bianco e, appunto, uranio impoverito.

L’operazione militare contro Falluja - nella quale 36 mila case delle 50 mila dell’intera città vennero rase al suolo - rappresentò per stessa ammissione dei vertici statunitensi, una punizione esemplare e collettiva per piegare la resistenza sunnita in tutto l’Iraq occupato. Una condotta perciò contraria al dettato stesso della Convenzione di Ginevra, la quale all’articolo 51 del Protocollo 1 proibisce “le punizioni collettive e qualsiasi misura di intimidazione o terrorismo”.

I crimini americani commessi a Falluja rappresentano uno degli episodi più dolorosi della recente storia militare nei confronti della popolazione civile di un paese occupato. Gli effetti su una città tuttora in rovina tuttavia, a differenza di altre stragi, come quelle quasi quotidianamente perpetrate in Afghanistan o in Pakistan, peseranno ancora per molti anni sulle generazioni future.

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