Assange, le “non garanzie” USA

di Michele Paris

Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per...
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Israele e l’equazione iraniana

di Michele Paris

L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove. La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle...
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di Eugenio Roscini Vitali

Nel luglio scorso, dopo l’annuncio dell’ennesima strage di vittime collaterali, persone innocenti uccise da un razzo che aveva centrato una casa nel distretto di Sangin, nella turbolenta provincia meridionale di Helmand, il presidente afghano, Hamid Karzai, chiedeva alla NATO di introdurre ogni possibile misura per evitare danni ai civili durante le operazioni militari: «Il successo contro il terrorismo non si ottiene lottando nei villaggi afghani, ma colpendo i santuari e le fonti ideologiche e finanziarie che si trovano oltre frontiera».

Il 30 agosto, a poche ore dalla morte di 14 militari americani uccisi in tre diversi attentati e a dopo la pubblicazione dei dati relativi all’incremento delle perdite civili registrate nei combattenti tra i reparti dell’International Security Assistance Force (Isaf) e la guerriglia talebana, Karzai rafforzava la sua posizione affermando: «L’esperienza negli ultimi otto anni dimostra che combattere i talebani nei villaggi afghani è stato inefficace e non porta a nulla tranne che ad uccidere civili. Nell’attuale situazione ripensare e ridefinire la strategia per contrastare gli insorti è diventata un’urgente necessità».

Retorica di un uomo che deve molto del suo successo alle amministrazioni americane che l’hanno sostenuto o coscienza del fatto che questa è una guerra destinata a durare ancora a lungo? Hamid Karzai conosce perfettamente l’importanza geopolitica del suo Paese e sa che la Casa Bianca farebbe di tutto per mantenere il controllo militare dell’Afghanistan, una regione che insieme all’Asia centrale ha ormai assunto una posizione chiave nella moderna filosofia della “strategia del dominio globale”. Una strategia lanciata alla fine del secolo scorso con la Guerra del Golfo e che si è poi sviluppata con l’intervento nei Balcani, in Iraq, nello stesso Afghanistan e con le operazioni segrete nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica: Cecenia, Georgia, Azerbaijan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.

In realtà, in questi Paesi le attività americane erano cominciate ben prima della guerra contro il terrorismo: negli anni Ottanta era stata la CIA ad organizzare la colossale operazione “Ciclone” e, in collaborazione con l’MI5 britannico e l’intelligence pakistano (ISI - Inter-Services Intelligence), furono i suoi agenti ad addestrare ed armare quegli stessi mujahiddin che, di li a pochi anni, avrebbero costretto l’Armata Rossa alla resa. Un modello talmente efficacie che negli anni Novanta venne esportato anche in Cecenia e che in un prossimo futuro potrebbe essere applicato ad altri Paesi.

Anche se inumano e immorale, fomentare le rivolte tribali e perpetrare atrocità di ogni genere per terrorizzare le popolazioni civili è una strategia che spesso paga e che giustifica le così dette guerre di mantenimento della pace: da un lato si alimenta l’insurrezione armata, dall’altro si spendono milioni di dollari per armare i combattenti dell’anti terrorismo locale. Le “malelingue” pensano che questa particolare strategia, che comprende l’uso della provocazione, dell’inganno e dell’infiltrazione, potrebbe essere stata utilizzata in Iraq per alimentare lo scontro tra sciiti e sunniti, e dal 2003 in Afghanistan, dove avrebbe scatenato la rivolta delle regioni di confine e avrebbe permesso di esportare il conflitto in Pakistan. In numerosi rapporti si parla di gruppi ribelli che avrebbero beneficiavano del sostegno degli Stati Uniti e di forze speciali britanniche e Usa che, nella regione conosciuta come Af-pak, avrebbero segretamente armato i taliban e i militanti jihadisti.

Oltre all’Isaf e alle forze speciali americane, in Afghanistan operano anche i così detti contractors, le compagnie private composte principalmente da ex militari ed ex ufficiali della CIA, mercenari che offrono i loro nefasti servizi a governi, banche e imprese transnazionali. In Iraq i contractors sarebbero stati responsabili del massacro di un ingente numero di civili e il sospetto è che lo stesso tipo di operazioni si starebbe ripetendo anche in Afghanistan ed in Pakistan.

Nonostante tutto, la Xe Services, ex Blackwater, l’esercito mercenario più grande del mondo, rimane il maggiore appaltatore privato dei servizi di sicurezza del Dipartimento di Stato Americano. Per mettere a tacere l’opposizione, il presidente Karzai avrebbe comunque già fatto stilare un piano che prevede lo smantellamento delle circa cinquanta società di sicurezza che operano nel Paese ed entro la fine dell’anno dovrebbero essere interrotti i contratti con la Four Horsemen International, la Compuss, la Ncl Holdings, la White Eagle Security Service, la Abdul Khaliq Achkzai e la stessa Xe Service.

Sin dall’inizio dell’Operazione Enduring Freedom le truppe dell’alleanza hanno avuto bisogno di una rete di rifornimenti, rotte sulle quali potessero viaggiare i camion carichi di carburante e materiale civile, bellico e logistico.  Fino ad oggi la via preferita era quella che dal porto di Karaci raggiunge, attraverso il passo Khyber e il valico di frontiera di Chaman, le basi militari di Bagram e Kandahar, ma ora che gli attacchi dei talebani e dei gruppi qaedisti hanno reso la rotta insicura il Pentagono ha iniziato a prendere in seria considerazione la possibilità di usare in modo permanente i canali di rifornimento che attraversano la regione centroasiatica.

Si tratta della cosiddetta “Rete di distribuzione nord”: la rotta che parte dal porto lettone di Riga e, attraverso la Russia, il Kazakistan e l’Uzbekistan, raggiunge il valico afghano di Termez-Hairatan; la rotta che collega il porto georgiano di Poti, sul Mar Nero, a quello azero di Baku, sul Mar Caspio, e continua poi fino al porto kazaco di Aqtau per poi rientare in Uzbekistan e la rotta, non ancora operativa, che attraversa il Kirghizistan e il Tagikistan.

Attualmente la Rete di distribuzione nord è certamente più sicura di quella pakistana, ma i Paesi che attraversa sono aree storicamente legate ai movimenti jihadisti ed quindi ovvio che, anche qui, la minaccia del terrorismo è qualche cosa di più di una semplice supposizione. C’è poi il problema russo, con Mosca che da tempo chiede agli Stati Uniti di lasciare la presa sull’Asia centrale e per questo ha già rilanciato la Collective Security Treaty Organization (CSTO), l’alleanza che oltre a Russia e Bielorussia comprende altri cinque Paesi dell’ex blocco sovietico: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Armenia. Per potersi assicurare il controllo della regione attraversata dalla Rete di distribuzione nord, Washington deve quindi fare i conti con il Cremlino e con la possibilità che l’area del conflitto afghano, si estenda anche a tutto l’Asia Centrale.

Secondo i servizi segreti americani le tribù afghane, tagike e uzbeke farebbero passare la droga attraverso le montagne che portano in Russia, passi difficilmente transitabili dove si viaggia solo a dorso di mulo; ma c’è anche chi sostiene che l’oppio potrebbe essere trasportato con mezzi più moderni e più rapidi. La difficoltà di portare a termine e con successo la distruzione dei campi di papavero e dei centri di lavorazione dell’oppio e dell’eroina lascia infatti supporre che in Afghanistan si potrebbe ripetere un film già visti: il trasporto su larga scala di eroina organizzato dalla CIA in Vietnam negli anni Sessanta.

Uno dei primi a parlarne è stato Hamid Gul, ex capo dei servizi segreti pakistani dal 1987 al 1989, che recentemente ha definito lo scandalo Wikileaks una denuncia orchestrata dagli stessi Stati Uniti per spostare l’attenzione dell’opinione pubblica da faccende ben più compromettenti: «Conosco le vostre malefatte in Afghanistan e le lacune nella vostra leadership, il vostro coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e come il vostro complesso della sicurezza stampi denaro e truffi i vostri stessi contribuenti». Accuse che il Pentagono ha rimandato al mittente ma che tra qualche anno potrebbero aprire la breccia per un nuovo caso Iran-Contras.

Negli anni Novanta, come si ricorderà, la stampa statunitense pubblicò una serie di rivelazioni esclusive spiegando come tra il 1981 e il 1986 i Contras avevano inondato di crack e cocaina i ghetti americani. Una serie di processi federali e di documenti dell’FBI mostravano l’aspetto più importante del traffico di stupefacenti, concepito, nonostante il divieto dell’ “Emendamenti Boland”, per continuare le operazioni in Nicaragua a sostegno dei Contras; il tutto trasferendo le attività della CIA e degli altri enti federali nelle mani di organizzazioni mercenarie dirette da organismi creati all’interno della stessa Casa Bianca.

La droga non è quindi una novità nelle guerre statunitensi e in Afghanistan l’oppio non è certo una merce rara: dal 2001 la produzione di droga è aumentata di 40 volte e il giro d'affari è ormai superiore al Pil di Paesi come la Slovenia e la Polonia; gli afghani sono i primi produttori al mondo di oppio e di hashish e il primi fornitori dei Paesi dell’Unione Europea e della Russia.

 

 

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