Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
> Leggi tutto...

IMAGE
IMAGE

Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
> Leggi tutto...

di Michele Paris

Mentre il vento della rivolta continua a soffiare su tutto il Nord-Africa e il Medio Oriente, la risposta più dura alle richieste di libertà e giustizia sociale provenienti da popolazioni impoverite sta giungendo da quello che resta del regime di Muammar Gheddafi in Libia. Il “leader” ha definito, in una fugace apparizione televisiva, “drogati e ratti” i manifestanti, chiarendo che la repressione sarà ancora maggiore e che, comunque, di fuga non se ne parla: lui morirà in Libia.

I bombardamenti aerei sui manifestanti e lo spiegamento di squadre di mercenari per le strade hanno già provocato centinaia di vittime, rivelando al tempo stesso la disperazione e la volontà del dittatore libico di impiegare qualsiasi mezzo per rimanere al potere. Con un altro autocrate arabo potenzialmente vicino alla fine, i governi occidentali, nonostante le dichiarazioni ufficiali, si trovano di nuovo a fronteggiare con estremo timore la perdita di un regime con il quale condividono profondi legami economici e interessi strategici.

Le parole di Gheddafi confermano quanto  si attendeva: la minaccia del pugno di ferro contro i rivoltosi era infatti già stata prospettata la scorsa domenica dal figlio del rais, Seif al-Islam, in una confusa apparizione televisiva che indicava la guerra civile come conseguenza inevitabile delle proteste di piazza. Un breve discorso dello stesso Gheddafi nella notte tra lunedì e martedì aveva smentito poi ogni voce sulla sua possibile fuga in Venezuela. L’irrigidimento del regime si è manifestato così con le identiche tattiche che già avevano caratterizzato le fasi iniziali dell’insurrezione in Egitto e che il presidente Saleh continua ad impiegare in Yemen, mandando nelle piazze gruppi armati di sostenitori del governo che attaccano in maniera violenta gli oppositori.

A detta di testimoni libici citati dalla stampa internazionale, da giorni infatti, in una base aerea di Tripoli, starebbero sbarcando centinaia di mercenari provenienti da vari paesi africani per contribuire alla durissima repressione in corso. Di fronte alla strage messa in atto da Gheddafi, sembrano però emergere divisioni all’interno del regime. Oltre ai più volte citati aerei libici atterrati a Malta, dopo che i piloti si erano rifiutati di sparare sulla folla, membri del governo, ufficiali dell’esercito e una schiera di diplomatici nelle ultime ore hanno abbandonato i propri incarichi in segno di protesta.

Secondo un giornale vicino alla famiglia Gheddafi, ad esempio, il ministro della Giustizia, Mustafa Abud al-Jeleil, avrebbe rassegnato le dimissioni. Lo stesso avrebbe fatto uno dei più anziani ufficiali libici, il colonnello Abdel Fattah Younes, di stanza a Bengasi, mentre Gheddafi ha messo agli arresti domiciliari il generale Abu Bakr Younes, accusato di aver disobbedito all’ordine di usare la forza per disperdere le proteste in svariate città. I delegati della Libia all’ONU hanno poi rinunciato alle loro funzioni, chiedendo a Gheddafi di andarsene, così come il rappresentante di Tripoli presso la Lega Araba, Abdel Monem al-Howni.

La risposta dei governi occidentali alle violenze in Libia è apparsa come al solito fin troppo moderata. La responsabile degli affari esteri dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ripetuto il consueto appello alla calma a entrambe le parti in causa, come se le ragioni delle due parti, o ancor più i mezzi della popolazione e di un regime con le sue forze di sicurezza, fossero in qualche modo equiparabili. L’Italia, il paese occidentale più vicino alla Libia e al suo leader, ha emesso da parte sua un comunicato di circostanza per condannare l’uso della forza sui civili.

Queste reazioni, d’altra parte, come per le altre rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo, sono dettate dalle preoccupazioni di governi che in questi anni si sono dati da fare per stabilire contatti e fare affari con il regime di Gheddafi. A partire almeno dagli anni Novanta, il governo libico ha intrapreso una serie di iniziative volte ad ammorbidire le posizioni occidentali nei propri confronti. Un’evoluzione culminata nel 2004 con la decisione presa dall’amministrazione Bush di rimuovere le sanzioni economiche precedentemente implementate.

In Europa, l’Italia - con i governi Berlusconi - e la Gran Bretagna sono state in prima fila nella corsa ad assicurarsi le risorse energetiche libiche e gli investimenti del clan Gheddafi. La Libia oggi esporta infatti verso i paesi UE circa l’80 per cento del proprio petrolio, di cui oltre il 30 per cento a beneficio dell’Italia, tanto che sul fronte del greggio Tripoli è attualmente il terzo fornitore europeo, dopo Norvegia e Russia.

Il governo di Londra ha fatto di tutto per ristabilire rapporti cordiali con Gheddafi, così da aprire la strada a lucrosi contratti per le proprie compagnie petrolifere, come la BP. La stessa liberazione nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, l’unico condannato per l’esplosione sopra Lockerbie del volo Pan Am 103 nel dicembre 1988, detenuto in un carcere scozzese, venne da molti descritta come un favore concesso a Tripoli in cambio di un importante contratto petrolifero proprio per la BP.

Notevoli sono anche gli interessi dell’ENI, detentore di svariate commesse in Libia, e le cui attività sono ora in serio pericolo, come dimostra il rimpatrio d’urgenza di tutto il personale operante nel paese. Un’iniziativa questa già adottata anche dalla norvegese Statoil, dalla francese Total, dalla spagnola Repsol e dalla stessa BP, la quale ha sospeso le trivellazioni esplorative in programma nel Golfo della Sirte.

I legami economici tra Europa e Libia non riguardano però solo il settore energetico, come sa bene il governo italiano. I fondi libici, sostanzialmente controllati dalla famiglia Gheddafi, hanno effettuato massicci investimenti in parecchie compagnie del nostro paese, delle quali detengono quote significative, a cominciare da FIAT, Unicredit e Mediobanca, ma anche Finmeccanica e lo stesso ENI.

Relazioni economiche e militari legano poi Londra e Tripoli. La Gran Bretagna da tempo addestra e rifornisce infatti l’esercito e le forze di sicurezza della Libia. Gli equipaggiamenti militari destinati a Tripoli sono stati congelati solo di recente, dopo lo scoppio della rivolta nel paese.

Come se non bastasse, ingenti riserve di valuta estera che Gheddafi e il suo entourage hanno accumulato, costringendo in uno stato di povertà gran parte del paese, si trovano su conti esteri e possono influenzare addirittura il comportamento di questo o quel governo.

Uno degli esempi più lampanti si ebbe nell’estate del 2008, in seguito all’arresto in un hotel di Ginevra di un altro figlio del rais, Hannibal Gheddafi, e della moglie, accusati di aver maltrattato due domestici marocchini. In quell’occasione, la Libia adottò una serie di ritorsioni, tra cui la minaccia di chiudere i propri conti in Svizzera, mettendo a repentaglio la tenuta stessa del sistema bancario di quel paese. Poco dopo l’arresto, la famiglia Gheddafi ottenne le scuse ufficiali da parte delle autorità elvetiche e la liberazione della coppia di maneschi rampolli.

I timori occidentali sono dunque quelli di ritrovarsi senza un regime stabile che fino ad ora ha garantito regolari forniture di gas e petrolio, investimenti e, nel caso dell’Italia, un più o meno rigido controllo dei flussi migratori. Le paure che animano soprattutto il nostro governo sono state espresse a Bruxelles dal Ministro degli Esteri Frattini, il quale ha messo in guardia dalla possibile instaurazione in Libia di un regime islamico radicale.

Se in Libia, come altrove, le proteste di piazza non sembrano in ogni caso avere un carattere religioso, ciò che preoccupa non è tanto l’Islam, dal momento che Frattini e gli altri governi occidentali non si fanno scrupoli nell’intrattenere ad esempio stretti legami con un regime oscurantista come quello dell’Arabia Saudita. La loro inquietudine è bensì per un eventuale governo che risponda finalmente alle richieste del popolo e che sia in grado di costruire un percorso autonomo e non più disposto ad assecondare passivamente gli interessi occidentali.

La repressione del regime, intanto, non fa altro che inasprire la protesta, con i disordini che sempre più stanno interessando la capitale Tripoli, dopo che i rivoltosi da qualche giorno sembrano aver conquistato il controllo di Bengasi e delle regioni orientali del paese. Allo stesso tempo, cominciano ad arrivare notizie di numerosi scioperi che fanno pensare all’inizio di una mobilitazione dei lavoratori, come già accadde in Egitto poco prima della spallata decisiva a Mubarak.

Anche in Libia i manifestanti chiedono la fine della dittatura e l’instaurazione di un governo temporaneo secolare guidato dall’esercito e dai rappresentanti dei gruppi tribali nei quali è divisa la popolazione. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le prospettive della rivoluzione appaiono più complicate rispetto a Tunisia o Egitto. In più di quarant’anni di regime assoluto, Gheddafi ha fatto leva su un senso di appartenenza tribale più profondo rispetto all’identità nazionale, stabilendo rapporti di favore con i clan più fedeli ed emarginando quelli rivali. In un tale scenario, il rischio concreto è appunto l’esplosione di violenze settarie e lo scivolamento verso una sanguinosa guerra civile.

Pin It

Altrenotizie su Facebook

altrenotizie su facebook

 

 

ter2

Il terrorismo contro Cuba
a cura di:
Fabrizio Casari
Sommario articoli

 

Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020...
> Leggi tutto...

IMAGE

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy