Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Carlo Musilli

Se ne sono ricordati a Deauville, ma ormai è tardi per evitare il peggio. Nel corso dell'ultima riunione in Francia, i Paesi del G8 sono tornati a parlare di Yemen. Hanno chiesto le dimissioni del dittatore Ali Abdullah Saleh, in carica da 33 anni. Nel documento finale del vertice hanno esortato il Presidente a firmare l'accordo proposto dalle monarchie del Golfo Arabo per una transizione democratica dei poteri. Intanto a Sana'a continua la mattanza. E i ministri degli esteri europei ogni giorno "deplorano l'accaduto".

Dal summit francese è arrivata almeno una conferma: agli occhi dei potenti le primavere arabe non sono tutte uguali. Le grandi democrazie occidentali non ritengono valga la pena di sporcarsi le mani in un pantano da cui non si può ricavare (quasi) nulla. Hanno stanziato 40 miliardi di dollari per i Paesi arabi in cui c'è una democrazia da ricostruire e per quelli in cui la guerra ancora continua. Quei soldi non sono ancora stati spartiti, ma con ogni probabilità saranno destinati in primo luogo a Egitto e Tunisia, poi a Libia e Siria. Fino ad ora per lo Yemen non è stata sprecata nemmeno una risoluzione Onu.

Eppure le sorti del Paese stanno a cuore almeno agli Stati Uniti, che fino a pochi mesi fa erano i migliori amici di Saleh. Agli americani interessa che la crisi yemenita non si prolunghi eccessivamente e abbia un esito politicamente accettabile. Si tratta di evitare che Al Qaeda nella Penisola Arabica ampli eccessivamente i suoi spazi di manovra.

Per diverse settimane gli Usa hanno riposto quasi tutte le loro speranze nella mediazione Consiglio di cooperazione del Golfo, guidato dall'Arabia Saudita, l'alleato di sempre. Da qualche giorno sembra che stiano finalmente valutando l'opportunità di ricorrere alle Nazioni Unite. Peccato che la strategia internazionale di cui si parla non preveda sanzioni di rilievo, ma solo l'ennesima richiesta di dimissioni al dittatore.

Davvero poco per pensare di risolvere una crisi che ogni giorno diventa più complessa. La settimana scorsa il conflitto yemenita ha subito una metamorfosi decisiva. Dopo che Saleh ha rifiutato per la quarta volta di firmare il piano di mediazione del Golfo, a Sana'a sono iniziati gli scontri più sanguinosi dall'inizio delle proteste.

Cinque mesi fa la sollevazione iniziò per iniziativa di alcuni studenti universitari della capitale. Ma se la forza propulsiva del conflitto è nata dal basso, la sua capacità di resistere proviene dall'alto. Ormai il movimento popolare ha un'importanza secondaria. Il vero scontro è quello fra le alte sfere del potere politico e militare. Come rileva un rapporto dell'International Crisis Group, "la guerra è diventata una lotta personale tra la famiglia del Presidente e la confederazione degli Hashed", il gruppo tribale più importante del Paese, capeggiato dallo sceicco Sadiq Al Ahmar.

In particolare, "nel tentativo di mediazione tra le tribù rivali - si legge ancora nel report - le rivalità personali e la competizione per il potere tra i figli di Sadiq, i suoi nove fratelli, i figli e i nipoti del presidente Saleh sono il primo ostacolo ai negoziati per un pacifico trasferimento dei poteri". Non è solo lo scontro tribale a mettere il Paese sui binari di un'anarchia che pare senza soluzione, ma anche la lotta intestina che si registra all'interno delle singole fazioni.

Intanto il sangue continua a scorrere in tutto il Paese. Le forze di sicurezza di Saleh e i miliziani Hashed si fronteggiano ogni giorno in battaglie di strada. Soltanto la settimana scorsa gli scontri hanno provocato un centinaio di morti (su un totale di 250 vittime dall'inizio delle proteste, secondo una stima della France Presse). Venerdì fra le due parti è stata siglata una tregua. Ma si trattava di un bluff. Subito dopo il “cessate il fuoco”, alcuni gruppi tribali hanno attaccato un check point a nord della capitale, uccidendo una decina di persone.

Eppure, a sentire Sadiq, una mediazione sarebbe ancora possibile: "Se Saleh vuole una rivoluzione pacifica, noi siamo pronti - ha detto il leader di Hashed - ma se vuole la guerra, noi combatteremo". Il rischio concreto è che alla fine della guerra il potere finisca davvero nelle mani dei capotribù. Se così fosse, sarebbe difficile per gli studenti yemeniti immaginare un futuro migliore. La soluzione in cui tutti sperano è che Saleh sia costretto all'esilio dalle pressioni internazionali. Fino ad ora però siamo andati poco oltre il solletico.

 

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