Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Carlo Musilli

Decenni di stragi, genocidi e deportazioni, ma alla fine è successo. Sul nostro pianeta è nata ufficialmente una nuova nazione, il Sudan del Sud. A gennaio un referendum ne ha sancito la secessione da Khartoum e sabato scorso si è svolta la cerimonia per la proclamazione di indipendenza. Il neonato africano (54esimo Stato del continente) è grande come Kenya, Uganda e Tanzania messi insieme, ma la sua popolazione non raggiunge i nove milioni di abitanti. La metà della sola città del Cairo. Per arrivare fin qui sono state combattute due guerre civili decennali (1955-1973 e 1983-2005). Da una parte i musulmani arabi del nord, dall'altra i cristiani del sud. Oltre due milioni di persone sono morte, quattro milioni gli sfollati.

Nonostante l'entusiasmo sfrenato che si respira in questi giorni per le strade di Juba, la nuova capitale, leggere quello che è successo sabato come il lieto fino di una brutta storia sarebbe quanto mai ingenuo. Il Sudan del Sud è ancora una delle aree più sottosviluppate al mondo e i massacri sono ancora pane quotidiano. Nulla lascia prevedere che la situazione possa migliorare in tempi brevi, soprattutto perché il nord rimane sotto il controllo del dittatore sanguinario Omar al Bashir. Su di lui pende un mandato di cattura emanato dalla Corte penale dell'Aia per i crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel Darfur.

Al Bashir era presente alla proclamazione d'indipendenza. La sua doveva essere una visita diplomatica e di riconciliazione, ma è sembrata più un gesto di scherno. O, peggio ancora, un monito a non alzare troppo la testa. Sono ancora molte le questioni aperte su cui il dittatore non ha alcuna intenzione di negoziare.

A livello territoriale, la disputa principale riguarda la regione centrale di Abyei, diecimila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio al confine fra i due stati. Dopo l'invasione delle truppe di Khartoum, nella zona sono stati schierati 4.200 caschi blu eritrei del contingente di pace Onu. Un'altra area critica è quella del Kordofan meridionale, terra abitata principalmente da cristiani, che però rimarrà nei confini del nord.

Oggi è presidiata dall'esercito sudanese, che intende prevenire qualsiasi possibile velleità di secessione. Un accordo per la spartizione pacifica della regione fra i due Paesi era stato raggiunto lo scorso 29 giugno. Al Bashir lo ha ricusato giovedì, due giorni prima di volare a Juba con un bel sorriso stampato sulle labbra.

Come prevedibile, gran parte dei conflitti ruota attorno al petrolio. L'oro nero contribuisce per il 98% ai ricavi del sud e per il 90% a quelli del nord. Dividere questa risorsa in un modo accettabile fra le parti sembra un'impresa titanica. Soprattutto perché, anche dopo la separazione, i due territori rimangono strettamente interdipendenti.

Nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, ma gli oleodotti e le raffinerie sono tutti al nord. Una delle soluzioni prospettate prevede che il sud venda a Khartoum il suo petrolio con uno sconto del 10% nei prossimi tre anni, pagando al contempo l'utilizzo delle infrastrutture. Ma non sarà un accordo facile da raggiungere.

Oltre alle contese con i vecchi connazionali, il Sudan del Sud deve anche fronteggiare una serie di problemi interni. Il più grave ha a che fare con la minaccia del conflitto etno-tribale. Sembra che nelle ultime settimane la comunità Dinka, a cui appartiene il neo presidente Salva Kiir, stia portando avanti un'ennesima, sistematica pulizia etnica nei confronti dell'etnia rivale Nuer.

Tutto questo accade in un Paese dove la stragrande maggioranza della popolazione guadagna meno di un dollaro al giorno e vive di agricoltura su terreni per lo più desertici. La mortalità femminile legata al parto è la più alta al mondo e oltre la metà dei bambini non va a scuola. In compenso, il Sudan del Sud è uno dei paesi più ricchi di armi di tutta l'Africa. Il mercato più fiorente è quello dei kalashnikov, degli Ak47 e soprattutto delle armi di piccolo taglio.

Degrado e mancanza di sicurezza sono ai livelli massimi su scala globale, ma tanto per cambiare le Nazioni Unite non sembrano disposte ad andare oltre il minimo sindacale per questa fetta del pianeta. Si limitano a monitorare gli attacchi portati dalle truppe sudanesi alla popolazione civile, senza garantire una reale protezione.

I governi occidentali si producono nei soliti appelli in favore dei diritti umani. Purtroppo Al Bashir nemmeno gira la testa per ascoltarli. L'unico Paese ad avere un vero potere contrattuale per far sentire la sua voce fin qui è la Cina, che acquista circa i due terzi del petrolio esportato dal Sudan. Ma se le disgrazie subsahariane non appassionano l'Onu, figuriamoci quanto possono interessare al regime di Pechino.

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