Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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USA, ritirata dal Sahel

di redazione

Le speranze di Washington di riuscire a mantenere la presenza militare in Niger sono tramontate definitivamente dopo l’arrivo a Niamey dei primi cento consiglieri militari della “Africa Corps” russa. Gli Stati Uniti lo scorso fine settimana hanno infatti reso noto di aver accettato di ritirare dal Niger il contingente di un migliaio di militari, UAV (droni) armati MQ9 Reaper, elicotteri e aerei da trasporto. Il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha avuto un faccia a faccia a Washington con il premier nigerino Ali Mahamane Lamine Zeine, che ha ribadito la decisione sovrana del suo Paese di chiedere la partenza di tutte le forze straniere, comprese quelle americane. L’accordo prevederebbe l’invio nei prossimi giorni di una...
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di Michele Paris

Come annunciato, il regime del Myanmar ha avviato qualche giorno fa la liberazione di alcuni delle migliaia di prigionieri politici che ospita nelle proprie carceri. L’iniziativa del nuovo governo civile è solo l’ultima di una serie che sta facendo registrare una certa apertura del paese sud-est asiatico e segna un chiaro riallineamento della politica estera della ex Birmania. Per oltre duecento detenuti politici mercoledì scorso si sono aperte le porte delle carceri in Myanmar. Il numero dei rilasciati è per ora di gran lunga inferiore a quello che ci si attendeva, ma la scarcerazione di altri prigionieri dovrebbe avvenire nel prossimo futuro. A chiederlo sono i governi occidentali, le organizzazioni dei dissidenti espatriati e quelle a difesa dei diritti umani, alle quali si è aggiunto venerdì il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon.

La misura presa dal governo era stata annunciata dal presidente Thein Sein, in risposta ad una richiesta della Commissione per i Diritti Umani istituita recentemente dal governo centrale, e rientra nel quadro di una più ampia amnistia che dovrebbe riguardare oltre 6.300 prigionieri condannati per qualsiasi genere di reato.

Secondo le stime di Amnesty International, nel paese ci sarebbe un totale di circa duemila detenuti per crimini di natura politica. Tra quelli rilasciati mercoledì ci sono il popolare comico birmano Zarganar - arrestato nel 2008 e condannato a 35 anni di carcere - e il leader della minoranza etnica Shan, generale Hso Ten, il quale doveva scontare 106 anni per alto tradimento. Tuttora dietro le sbarre rimangono invece molti importanti esponenti dell’opposizione al regime coinvolti nella rivolta studentesca del 1988.

Il provvedimento di grazia risponde anche alle ripetute richieste fatte dagli Stati Uniti e dall’Occidente che chiedevano questa misura per avviare un dialogo e giungere finalmente alla rimozione delle sanzioni applicate al regime del Myanmar. Il presunto nuovo corso del governo di questo paese era iniziato con le elezioni dello scorso novembre che hanno ufficialmente messo fine al governo della giunta militare, al potere dal colpo di stato del 1962.

Pochi giorni dopo lo storico voto -che ha comunque garantito un ruolo privilegiato ai militari - erano stati inoltre revocati gli arresti domiciliari all’icona del movimento democratico, Daw Aung San Suu Kyi, mentre, più recentemente, è stata in parte allentata la censura sui mezzi di informazione e bloccata la costruzione di una mega diga appaltata ai cinesi. La “svolta” del regime era stata in qualche modo suggellata dall’incontro andato inscena lo scorso agosto nella capitale, Naypyidaw, tra la stessa Aung San Suu Kyi e il presidente Thein Sein.

Da molti in Occidente questi segnali sono stati valutati come l’inizio di un serio processo di democratizzazione nella ex Birmania dopo quasi cinque decenni di dittatura militare. Alcuni, al contrario, ritengono si tratti solo di cambiamenti esteriori che non cambiano la sostanza del regime. Per altri, ancora, le misure prese da meno di un anno a questa parte sono i tentativi di una classe dirigente di nuova generazione di liberalizzare il paese, con il rischio però che la vecchia guardia dei militari possa intervenire da un momento all’altro per rimettere indietro le lancette dell’orologio nel paese.

La liberazione dei primi prigionieri politici è stata salutata positivamente da Washington. Proprio lunedì scorso nel corso di una conferenza a Bangkok, l’assistente al Segretario di Stato per l’Asia e il Pacifico, Kurt Campbell, aveva elogiato gli sviluppi della situazione politica in Myanmar, suggerendo la possibilità di alleggerire le sanzioni applicate dagli Stati Uniti.

Questi timidi passi del regime in senso democratico sono d’altra parte dettati precisamente da una strategia tesa ad ottenere una qualche legittimità in seno alla comunità internazionale e, soprattutto, un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente dopo anni di isolamento. L’obiettivo principale del governo post-giunta militare è in sostanza quello di attrarre assistenza economica e investimenti, così da svincolarsi dall’eccessiva dipendenza dalla Cina.

Questo equilibrismo tra le due potenze - comune peraltro a molti paesi dell’Asia sud-orientale - è risultato evidente il 30 settembre scorso, quando il governo birmano ha annunciato a sorpresa la sospensione della costruzione della diga Myitsone sul fiume Irrawaddy. Il progetto, stimato in 3,6 miliardi di dollari, era in mano alla compagnia pubblica cinese China Power Investment Corporation, la quale aveva già investito svariate centinaia di milioni di dollari.

L’annuncio è stato un verso e proprio schiaffo alla Cina ed è arrivato significativamente mentre era in corso nella capitale americana una storica visita del ministro degli Esteri del Myanmar, Wunna Maung Lwin, al Dipartimento di Stato. Il governo ha dichiarato di aver interrotto il progetto in seguito all’opposizione incontrata tra la popolazione. Che questo sia stato il vero motivo - e non, invece, una mossa strategica ben studiata per lanciare un messaggio a Pechino e a Washington - appare estremamente improbabile, dal momento che negli ultimi decenni il regime del Myanmar ha represso duramente qualsiasi movimento di protesta senza mostrare particolari scrupoli.

Il cambiamento di rotta della politica estera birmana, tuttavia, difficilmente cambierà la realtà sul campo nel prossimo futuro. La Cina rimane d’altronde il principale partner economico e sponsor di Naypyidaw e, verosimilmente, continuerà per molto tempo a ricoprire un ruolo di grande importanza. Allo stesso modo, il Myanmar rappresenta una pedina strategica fondamentale per Pechino, sia per la stabilità delle regioni di confine attraversate da inquietudini etniche che per la fornitura di risorse naturali e il trasporto di petrolio e gas naturale in transito dall’Oceano Indiano.

Tutto questo non può in ogni caso nascondere la realtà di un processo di distensione in corso tra il Myanmar e gli Stati Uniti. L’iniziativa in questo senso era stata presa a Washington subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama, il quale aveva ordinato una revisione integrale della strategia da perseguire nei confronti di questo isolato paese asiatico, nell’ambito di un più ampio e aggressivo disegno per il contenimento della Cina.

Pur continuando ad esercitare pressioni sul regime del Myanmar, gli USA hanno iniziato a loro volta a mostrare qualche apertura, inviando spesso diplomatici di alto livello a discutere con la controparte birmana. Una netta accelerazione al processo è stata data infine dalle elezioni del novembre 2010 e dal successivo insediamento di un governo nominalmente civile alla fine di marzo. Un’evoluzione che ha posto le basi per la liberazione dei detenuti politici e che preannuncia un ruolo di spicco per gli Stati Uniti in un paese così strategicamente importante per gli equilibri di questo angolo del continente asiatico.

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