Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Allo scoccare della mezzanotte di lunedì, la cosiddetta Supercommissione per la riduzione del deficit negli Stati Uniti ha ufficialmente mancato il proprio obiettivo di trovare un accordo per abbassare il debito pubblico americano di 1.200 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Il fallimento della commissione parlamentare bipartisan dovrebbe ora far scattare tagli automatici per lo stesso importo a partire dal gennaio 2013, riguardanti in ugual misura spese militari e programmi sociali domestici.

Vista la scadenza ancora lontana e i timori per una drastica riduzione del budget del Pentagono, in ogni caso, è probabile che nei prossimi mesi verrà comunque raggiunto un qualche accordo per diminuire il deficit pressoché interamente attraverso il contenimento della spesa pubblica.

La speciale commissione (Joint Select Committee on Deficit Reduction) era stata istituita lo scorso mese di agosto con il Budget Control Act, prodotto delle trattative tra democratici e repubblicani nell’ambito dell’innalzamento del tetto del debito pubblico USA. Composta da sei deputati e altrettanti senatori equamente divisi tra i due partiti, la Supercommissione avrebbe dovuto adempiere al proprio mandato entro il 23 novembre, una scadenza in realtà anticipata di 48 ore così da garantire all’Ufficio del Budget per il Congresso il tempo minimo per valutare l’effettiva efficacia dell’eventuale accordo. Le proposte della commissione avrebbero dovuto poi essere sottoposte al voto del Congresso entro il 23 dicembre, senza possibilità di emendamenti o tattiche ostruzionistiche.

L’incapacità dei due partiti di trovare un punto d’incontro era risultato evidente già durante l’estate, nonostante entrambi fossero sostanzialmente in sintonia sui pesantissimi tagli da apportare alla spesa pubblica. I membri della commissione, per cominciare, avevano impiegato parecchie settimane solo per scegliere i propri staff, mentre le audizioni pubbliche preliminari sono state poche e indette con grave ritardo. Solo nell’ultimo mese si è vista una parvenza di trattativa, più che altro per convincere un’opinione pubblica sempre più sfiduciata della serietà dei politici di Washington nell’intervenire seriamente sulla questione del debito.

Con l’appressarsi della scadenza, gli esponenti democratici e repubblicani hanno allora iniziato ad attribuire la responsabilità del fallimento ai rispettivi rivali, accusati di non volere smuoversi dalle loro posizioni iniziali. Già nella giornata di domenica, molti membri della Supercommissione hanno preso parte a varie trasmissioni TV americane per lamentare le ragioni dell’insuccesso e nel pomeriggio di lunedì, rigorosamente dopo la chiusura dei mercati, è giunta la dichiarazione congiunta dei due presidenti della commissione stessa. La senatrice Patty Murray (democratica, Washington) e il deputato Jeb Hensarling (repubblicano, Texas), non senza una punta d’involontaria auto-ironia, hanno così ammesso che “dopo mesi di duro lavoro e intense deliberazioni, siamo giunti oggi alla conclusione che non è possibile presentare al pubblico un accordo bipartisan prima della scadenza fissata”.

I tagli automatici alla spesa che dovrebbero partire nel 2013, come già anticipato, comprendono identiche riduzioni degli stanziamenti per la difesa e per la spesa pubblica, tra cui un due per cento in meno per i rimborsi previsti dal programma sanitario che copre gli anziani (Medicare), quasi l’otto per cento in meno per altri programmi sociali e il dieci per cento in meno per le spese militari.

Per evitare soprattutto quest’ultimo intervento, alcuni parlamentari repubblicani stanno già studiando misure ad hoc da presentare nelle prossime settimane, come hanno fatto intuire Patty Murray e Jeb Hensarling nella loro dichiarazione ufficiale. Il presidente Obama, da parte sua, ha però minacciato di mettere il veto su qualsiasi misura del Congresso volta a eludere l’implementazione dei tagli automatici, anche se nel gennaio 2013 alla Casa Bianca potrebbe esserci un inquilino diverso e con una diversa opinione.

Negli ultimi giorni erano emerse alcune bozze su cui, secondo la stampa americana, sembravano poter convergere le due parti. Venerdì scorso, ad esempio, i democratici avevano avanzato una proposta da 900 miliardi di dollari che comprendeva tagli per 225 miliardi a Medicare, 50 miliardi a Medicaid, 100 ad altri programmi di assistenza e 400 miliardi provenienti da misure fiscali come la soppressione di scappatoie legali che permettono alle aziende e ai redditi più alti di pagare meno tasse. Quando i repubblicani hanno chiesto ulteriori interventi, tra cui l’innalzamento dell’età di accesso a Medicare da 65 a 67 anni e la riduzione degli adeguamenti annuali alle pensioni già erogate, le trattative sono naufragate.

Sempre qualche giorno fa, è toccato poi alla leadership repubblicana proporre un pacchetto meno ambizioso ma che ha avuto identica sorte. Le misure - pari a 643 miliardi di risparmi - erano basate quasi interamente su tagli alla spesa pubblica, con appena 3 miliardi di dollari da recuperare tramite la fine degli sgravi fiscali sugli aerei privati delle corporation. Nulla da fare, infine, anche per la proposta presentata in extremis lunedì da John Kerry e che intendeva posticipare la delicata riforma del sistema fiscale al prossimo anno.

Ufficialmente, il fallimento della Supercommissione è dovuto all’inflessibilità dei repubblicani nel voler raggiungere un accordo basato esclusivamente su tagli alla spesa pubblica e, parallelamente, dei democratici di voler includere nella trattativa un qualche aumento delle tasse per i redditi più alti, ad esempio attraverso la fine dei benefici fiscali voluti da George W. Bush e prolungati dal Congresso l’anno scorso, in scadenza il 31 dicembre 2012.

In realtà, la pretesa dei democratici di battersi per far pagare a tutti gli americani il prezzo del risanamento in maniera equa e a seconda delle loro possibilità si scontra con la natura delle proposte da loro stessi presentate e con la totale disponibilità ad includere nelle trattative il drastico ridimensionamento di qualsiasi programma pubblico (Medicare, Medicaid, Social Security). Più di un’offerta democratica, infatti, prevedeva la riduzione del deficit per importi ben superiori ai 1200 miliardi di dollari previsti dal mandato della Supercommissione, sempre da raggiungere con tagli devastanti e misure fiscali poco più che simboliche a carico delle classi privilegiate. Lo stesso Obama, poco dopo l’annuncio del definitivo fallimento della commissione, ha ribadito il suo impegno per trovare un accordo “in un modo o nell’altro” per ridurre il deficit di 2.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Obama, d’altra parte, è costretto a far fronte alle critiche subito sollevate dai candidati alla presidenza per il Partito Repubblicano, i quali lo accusano di aver tenuto un profilo troppo basso nei confronti della Supercommissione. In realtà, erano stati gli stessi membri di quest’ultima a chiedere alla Casa Bianca di rimanere fuori dai negoziati, presumibilmente per evitare di politicizzare un lavoro che era stato presentato come sforzo bipartisan per il bene del paese. Il presidente, inoltre, aveva rinvigorito le proprie credenziali di falco del deficit inviando una sua proposta di accordo per ridurre il debito di addirittura 3.000 miliardi di dollari, includendo tagli a tutto campo alla spesa pubblica.

Quali che siano le prossime mosse dei vertici repubblicani e democratici, la gran parte degli sforzi saranno dedicati in ogni caso all’approvazione di misure che peggioreranno ulteriormente gli standard di vita della maggioranza della popolazione americana. Il tutto a fronte di svariati sondaggi che indicano invece come ci sia nel paese un ampio consenso per un aumento consistente del prelievo fiscale a carico dei redditi più elevati e per un’espansione di programmi sociali sempre più necessari in un periodo di crisi e con la disoccupazione alle stelle.

A conferma del totale scollamento tra la politica di Washington e la popolazione statunitense, così come della natura dei provvedimenti che il Congresso partorirà nei prossimi mesi, c’è una prima misura di bilancio che la Camera e il Senato hanno licenziato qualche giorno fa. La nuova legge, che riguarda cinque ministeri, prevede infatti un taglio di ben 819 milioni di dollari alle spese per il mantenimento e la gestione dell’edilizia pubblica, mentre aumenta in maniera irrisoria (12 milioni) gli stanziamenti per i buoni alimentari (food stamps), proprio mentre continua ad allargarsi drammaticamente in tutto il paese il numero degli americani costretti a sopravvivere al di sotto della soglia di povertà.

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