La guerra infinita di Washington

di Mario Lombardo

L’autorizzazione all’uso della forza militare concessa dal Congresso americano al presidente George W. Bush dopo l’11 settembre 2001 ha fornito il pretesto per oltre due decenni alla sua e alle successive amministrazioni per scatenare guerre o condurre attacchi mirati in Medio Oriente e in Africa che, molto spesso, nulla avevano a che fare con la “lotta al terrorismo” di matrice...
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Iran, l’Europa sceglie la guerra

di Mario Lombardo

I rappresentanti del governo iraniano terranno colloqui di “alto livello” con le loro controparti di Francia, Regno Unito e Germania a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite questa settimana per cercare di arrestare la rapida escalation della crisi attorno alla questione del nucleare di Teheran. La notizia segue il voto di venerdì scorso al Consiglio di Sicurezza che reintroduce di fatto le sanzioni contro la Repubblica Islamica sospese un decennio fa con l’entrata in vigore dell’accordo di Vienna (JCPOA). A seguito di questa iniziativa, presa dai tre già citati governi europei parte dell’accordo (E3), l’Iran ha congelato ogni forma di collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica...
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di Michele Paris

Il presidente e autocrate della repubblica centro-asiatica del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, aveva presentato le elezioni parlamentari di domenica scorsa come uno dei primi passi verso la democratizzazione del paese ex sovietico. I risultati, tuttavia, pur avendo rotto formalmente il monopolio del partito di governo, hanno assegnato nuovamente una maggioranza schiacciante alla formazione politica di Nazarbayev, suscitando le critiche degli osservatori internazionali che hanno sorvegliato le operazioni di voto.

Il partito del presidente, Nur Otan (“luce della patria”), ha ottenuto domenica l’81% dei suffragi e nel nuovo parlamento (Mazhilis) dovrà per la prima volta cedere il controllo assoluto dell’Assemblea. Due soli altri partiti sono riusciti a superare a malapena la soglia di sbarramento del 7%, Ak Zhol (7,5%) e il Partito Comunista Popolare del Kazakistan (7,2%), uno dei due partiti comunisti del paese.

Difficilmente, in ogni caso, questi due partiti rappresenteranno un qualche ostacolo all’azione del governo. Ak Zhol, soprattutto, è un partito pro-business vicino al presidente, e il suo fondatore, Azat Peruashev, era fino a pochi mesi fa membro di Nur Otan.

La Camera Bassa del Parlamento kazako conta un totale di 107 seggi, di cui 98 vengono assegnati con il voto popolare, mentre i restanti 9 sono decisi dalla stessa assemblea e rappresentano i diversi gruppi etnici del paese. In base alla tornata elettorale di domenica, Nur Otan ha conquistato 83 seggi, Ak Zhol 8 e il Partito Comunista Popolare 7. Quando lo scorso novembre Nazarbayev sciolse il Parlamento, il suo partito occupava tutti e 98 i seggi elettivi. Nel recente passato, in realtà, un altro partito (Asar) aveva ottenuto una rappresentanza in Parlamento, ma era guidato da una delle figlie del presidente, Dariga Nazarbayeva, ed è stato successivamente assorbito da Nur Otan.

In Kazakistan erano presenti circa 400 osservatori internazionali, tra cui quelli della missione OCSE. Proprio quest’ultimo organismo ha sollevato seri dubbi circa la regolarità di un voto che non avrebbe avuto “i requisiti fondamentali di un’elezione democratica”. Secondo il capo degli osservatori dell’OCSE, “il voto ha avuto luogo sotto stretto controllo” da parte delle autorità governative e ha evidenziato “gravi restrizioni dei diritti dei cittadini”.

Il governo, inoltre, ha depennato dalle schede elettorali numerosi partiti e candidati dell’opposizione proprio alla vigilia del voto. Gli osservatori hanno documentato decine di episodi sospetti presso i seggi visitati, tra cui manipolazioni delle schede, voti multipli e irregolarità varie. Il voto, più in generale, è stato segnato da severe restrizioni alla libertà di assemblea e d’informazione, con i media che in gran parte hanno esercitato una sorta di auto-censura.

La condanna delle elezioni in Kazakistan da parte degli osservatori internazionali è d’altra parte pratica comune. Solo nell’aprile del 2011, erano stati denunciati brogli diffusi e intimidazioni durante il voto che aveva confermato Nazarbayev alla presidenza con il 95% dei consensi. In quell’occasione, anche un candidato rivale aveva dichiarato pubblicamente di aver votato per il presidente.

Nazarbayev e la sua cerchia di potere intendevano utilizzare il voto di domenica per legittimare di fronte alla comunità internazionale l’immagine di un regime dalle tendenze autoritarie e macchiato dalle ripetute accuse di violazioni dei diritti umani. Solo un mese fa, ad esempio, la città di Zhanaozen era stata teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e i lavoratori del settore petrolifero in sciopero che causarono 17 morti. In seguito a questi fatti, il presidente aveva decretato lo stato di emergenza fino al 5 gennaio scorso, poi prolungato fino alla fine del mese.

Nonostante le proteste contro il regime non abbiano finora visto nemmeno lontanamente la partecipazione di massa vista da un anno a questa parte nei paesi arabi, il malcontento popolare in Kazakistan sembra covare sotto le ceneri. A conferma dei malumori crescenti, uno dei partiti dell’opposizione che non ha superato la soglia di sbarramento - Partito Social Democratico Nazionale (OSDP) - ha organizzato una piccola manifestazione martedì nella principale città del paese, Almaty, chiedendo l’annullamento del voto. Per tutta risposta, le autorità hanno subito oscurato un sito web allineato con l’OSDP.

Il Kazakistan è uno dei quattro paesi centro-asiatici dell’ex Unione Sovietica guidati da leader autoritari già facenti parte della vecchia oligarchia stalinista. Gli altri sono Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, mentre il quinto paese della regione, il Kirghizistan, dopo una sollevazione popolare nel 2010 è alle prese con un complicato processo di transizione verso un sistema apparentemente democratico e multipartitico.

Alla guida del paese fin dall’indipendenza da Mosca, il 71enne Nursultan Nazarbayev ha saputo destreggiarsi abilmente per due decenni tra Russia e Stati Uniti, in virtù della posizione strategica del Kazakistan e delle sue ingenti risorse energetiche (petrolio e gas naturale). Grazie a queste ultime, l’ex primo segretario del Partito Comunista Kazako nell’era sovietica e il suo entourage si sono arricchiti enormemente coltivando rapporti di favore con le grandi compagnie estrattive che operano nel paese.

Affacciato sul Mar Caspio, il Kazakistan ha una superficie nove volte superiore a quella dell’Italia ma conta appena 16 milioni di abitanti. Oltre alla presenza di numerosi giacimenti petroliferi sfruttati da varie corporation americane, il paese rappresenta una via di transito fondamentale per le forniture statunitensi dirette nel vicino Afghanistan. Per queste ragioni, malgrado la natura marcatamente autoritaria del regime, Washington continua ad intrattenere rapporti più che cordiali con Nazarbayev.

Di conseguenza, le reazioni degli Stati Uniti al voto di domenica e alle denunce degli osservatori internazionali sono state fin troppo pacate. “Siamo ansiosi di collaborare con il nuovo Parlamento multi-partitico e di proseguire la nostra cooperazione con il governo e il popolo del Kazakistan”, recitava lunedì una nota ufficiale del Dipartimento di Stato. Ricalcando poi la consueta retorica che caratterizza i rapporti degli USA con i regimi anti-democratici alleati, la dichiarazione non è andata oltre un generico auspicio che il governo del Kazakistan “possa mantenere la promessa di introdurre le riforme necessarie a creare un genuino pluralismo” del sistema.

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