USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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Senza chiedere permesso, senza autorizzazione alcuna, il Comandante Tomàs Borge Martinez, ultimo dei fondatori in vita del Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, di cui era Presidente onorario, ha lasciato per sempre orfano il Nicaragua. Testimone vivente delle gesta sandinista, dimostrazione cogente e storica di come Davide è capace di sconfiggere Golia, Tomàs, 82 anni, ha cessato di vivere lunedì scorso, ricoverato nell’ospedale militare di Managua.

Il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, come si deve ad un uomo che ha intrecciato così intensamente la storia del paese da rendere difficile dividerne i reciproci destini. E bene lo sanno le migliaia e migliaia di nicaraguensi che per ore hanno omaggiato in fila la salma del Comandante.

Fondatore del FSLN nel 1961, membro della storica direzione nazionale del partito, ministro dell’Interno durante la decada rivoluzionaria dei sandinisti al potere, parlamentare sandinista e, da ultimo, ambasciatore nicaraguense in Perù, il Comandante Borge è stato molte cose in una sola. Sandinista, poi ancora sandinista, irrimediabilmente e per sempre sandinista.

Fu tra coloro che sconfissero una delle dittature più feroci e truculente della storia, appoggiata dagli Stati Uniti e detestata dai nicaraguensi; la rivoluzione sandinista rese possibile credere che anche nel "giardino di casa" di Washington, ribellarsi era doveroso, vincere era possibile. A prezzo di lutti infiniti e pagine eroiche, abbatterono una dittatura e fondarono una democrazia, guadagnarono il rispetto dei loro amici e il timore dei loro nemici, insegnarono imparando e trasformarono un'entità territoriale in una nazione.

Dalle montagne dove organizzava la guerriglia alla carcere dove detenuto per tre anni venne continuamente quanto inutilmente torturato, dal Ministero dell’Interno da lui fondato alla diplomazia, Borge è stato l’uomo più carismatico del Frente. Un atteggiamento quasi messianico nei confronti degli umili e la fama di “duro” nell’agone politico, erano le caratteristiche con le quali lo si descriveva, in fondo la fedele rappresentazione di un uomo che ha segnato profondamente la storia del suo paese immergendosi completamente nelle sue vene più profonde.

Parlare diffusamente ed esaurientemente di Tomàs Borge richiederebbe uno spazio ben maggiore di quello a disposizione. Una delle numerose volte che ebbi il piacere di conversare con lui, lo intervistai per Liberazione. Ricordi, analisi, aneddoti di una vita tra le montagne a combattere la guardia nazionale somozista e molti più anni a combattere il terrorismo dei Contras e della Cia, che nelle Amministrazioni guidate da Ronald Reagan aveva inondato di armi e dollari, menzogne e complotti, il Nicaragua che cercava la sua via di emancipazione.

Alla domanda se avesse cambiato qualcosa della sua vita, potendo tornare indietro, mi disse che no, avrebbe rifatto tutto quello che aveva fatto, perché le scelte adottate non l’avevano mai visto cedere di fronte a lusinghe o paure, a calcolo o a indolenza; si rimproverava invece una certa arroganza nel periodo di governo: “Avrei dovuto avere maggiore umiltà e studiare di più”, mi disse.

Ricordando i momenti più difficili della resistenza sandinista all’aggressione statunitense, mi confessò che fu proprio la determinazione e la capacità combattente dei nicaraguensi a fermare l’invasione del Nicaragua da parte degli Usa: “Non saremmo stati come Panama o Grenada, e loro lo sapevano bene; i piani militari di reazione all’invasione che avevamo elaborati erano ben diversi da quelli che gli Stranamore del Pentagono prefiguravano. Noi non avremmo potuto contrastare i bombardamenti, ci saremmo ritirati nei bunker e in ogni luogo. Ma loro dovevano per forza scendere a terra per occupare il paese, e allora a terra li avremmo attesi".

Ma sarebbe bastato a fermarli? "Avremmo combattuto metro per metro, con una preparazione militare che loro nemmeno si sognavano e più di un milione di persone in armi. E non solo questo: ci saremmo ritirati sulle montagne dalle quali provenivamo e che conoscevamo palmo a palmo, obbligandoli a seguirci, gli avremmo portato la guerra in tutto l’emisfero. Loro attaccavano in Nicaragua? La guerra sarebbe scoppiata anche in El Salvador, Honduras, Costa Rica e Guatemala. Avremmo invaso anche i nostri vicini per portare la guerra ad un livello regionale; non avrebbero vinto mai, è per questo che non c’invasero, sapevano che avrebbero perso. E, dopo il Viet-nam, non potevano permetterselo”.

Fondatore della Polizia Sandinista e delle truppe speciali del Ministero dell’Interno, della Direzione Generale della Sicurezza di Stato (affidata al suo fido Lenin Cerna) rappresentò un vero e proprio calvario per la controrivoluzione in guayabera e in uniforme, quella che mangiava alla nicaraguense, pensava in inglese e parlava in spagnolo, che inutilmente tentò per nove anni di sovvertire il cammino scelto nel 1979. Era amato dalla sua gente e odiato dai suoi nemici, che lo etichettavano come “persecutore”, in quanto colpevole di mantenere il paese in sicurezza. Mai nessuna cellula terroristica dei contras e della CIA poterono insediarsi nelle città del paese. Gli chiesi se fosse dispiaciuto o compiaciuto dall’essere etichettato come un “duro” e lui, sorridendo, mi disse: “Inevitabile: hai mai visto un Ministro dell’Interno con una faccia da angelo?”.

Eppure quel volto e quella fama di duro si sposavano bene con la sua mistica rivoluzionaria e con l’amore nel senso più ampio del termine. Fu Tomàs Borge, dopo l’entrata trionfale dei sandinisti nella capitale, ad emanare il primo e, forse, più caratterizzante decreto del paese liberato: l’abolizione della pena di morte. E fu ancora lui che, pochi mesi dopo il trionfo rivoluzionario, di fronte ai resti della Guardia nazionale somozista arresasi ai sandinisti, ordinò all’uomo che lo aveva torturato in carcere per anni di uscire dalla fila e farsi avanti per ricevere il verdetto: l’uomo fece un passo avanti convinto di andare verso il plotone di esecuzione e Borge gli disse: “Emetto la sentenza: sei condannato ad essere libero, puoi andare”.

Perché, come amava ripetere, “i sandinisti sono implacabili nel combattimento, ma generosi nella vittoria”. Fu l’inizio di una amnistia generale che rese liberi la stragrande maggioranza di coloro che avevano collaborato con il somozismo e, a chi gli faceva notare come ciò rappresentasse un fatto inedito nella storia del suo paese, e che mai i somozisti avrebbero avuto lo stesso tratto, Tomàs rispondeva: “Tra i tanti motivi per i quali si fa una rivoluzione, c’è soprattutto quello di dimostrare di essere completamente diversi da loro”.

La storia dimostrò purtroppo come tanta generosità si rivelò in parte controproducente, visto che le ex-guardie somoziste furono i primi ad associarsi con i contras per riempire di lutti il paese, ma è pur vero che senza quei gesti la rivoluzione sandinista non sarebbe stata quella che è stata.

E da parte di Borge non vi furono mai pentimenti, al punto che, diversi anni dopo, in piena guerra d’aggressione al Nicaragua, non esitò a difendere un’ulteriore amnistia ai contras prigionieri per il raggiungimento degli accordi di pace di Esquipulas. Difese il provvedimento di clemenza non solo come strumento per il raggiungimento dell’accordo di tregua, ma anche come elemento caratteristico della cultura politica dei sandinisti.

Appena insediatosi da Ministro dell’Interno del Nicaragua ordinò che la facciata del Ministero ospitasse un’insegna che recitava: “Ministero dell’Interno, sentinella dell’allegria del popolo”. Non erano certo la fantasia e l’immaginazione che gli difettavano, insieme ad una cultura straordinaria.

Tomàs è stato anche uno straordinario oratore, capace d’infiammare le piazze come solo Fidel nel panorama latinoamericano era in grado di fare. E come scrittore ha pubblicato diversi libri, tra i quali “La paziente impazienza” (Premio Casa de las Americas 1989), “L’assioma della speranza”, “Un grano di mais”.

Aveva per Fidel Castro una venerazione totale e per la sua Cuba un sentimento di riconoscenza ed ammirazione illimitato. L’aiuto straordinario offerto da Cuba ai sandinisti, prima nella lotta per la liberazione dalla tirannide genocida dei Somoza, poi nella difesa e nella formazione ad ogni livello del paese durante la decada del governo rivoluzionario, aveva certamente segnato a fondo in tutta la direzione del Fsln. Ma per Tomàs in particolare, la relazione con Cuba era difficile da poter spiegare ad occhi più distaccati. Quando gli si chiedeva di fare i nomi dei cinque uomini più importanti della storia, rispondeva: al primo posto Fidel Castro, al secondo Fidel Castro e al terzo, quarto, quinto, Fidel Castro”.

Tomàs lascia ora a Daniel Ortega - di cui fu instancabile sostenitore - il testimone dell’eredità sandinista, in Nicaragua e ovunque. Le spoglie di Carlos Fonseca Amador, fondatore del FSLN, vedranno ora la vicinanza di quelle di Tomàs Borge Martinez. Sono, come disse Tomàs salutando i resti di Carlos Fonseca, "quei morti che non muoiono mai". Sono i padri della patria, coloro che, seguendo il cammino di Augusto Cesar Sandino, il “Generale degli uomini liberi”, hanno dato la loro vita per il loro paese, ai quali ora anche lui appartiene.

Resti immortali che hanno fecondato e feconderanno una terra di gente umile e fiera, guidata da poeti, rivoluzionari ed eroi capaci, passandosi di mano continuamente armi e poesia, di piegare il più grande impero della storia per alzare al cielo il sorriso della nuova Nicaragua. Libera, sovrana, cristiana e sandinista.

 

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