Siria, il “rebranding” del terrore

di Mario Lombardo

Il governo americano e quello di Israele stanno cercando di accelerare il processo di normalizzazione dei rapporti con il regime di fatto siriano, guidato dal qaedista Ahmed al-Sharaa, nel quadro del riassetto strategico perseguito dai due alleati in Medio Oriente. L’amministrazione Trump ha sospeso lunedì in via formale quasi tutte le sanzioni che gravavano da oltre un decennio sulla Siria,...
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Gaza, la fabbrica della morte

di Michele Paris

Tra voci di una possibile imminente tregua e l’intensificazione dell’offensiva militare israeliana nel nord della striscia di Gaza, sono emersi in questi giorni nuovi raccapriccianti dettagli sulle operazioni del regime di Netanyahu per “ripulire” questo territorio dalla popolazione palestinese con la complicità degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali. Il tutto mentre Trump insiste nel fare pressioni sul sistema giudiziario israeliano per lasciar cadere le accuse di corruzione e altri reati simili nei confronti del premier/criminale di guerra, collegando assurdamente il processo ai danni di quest’ultimo agli aiuti militari garantiti da Washington a Tel Aviv. La misura della strage Un team di accademici di una...
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di Diego Angelo Bertozzi

Si è conclusa con un nulla di fatto la due giorni cinese di Hillary Clinton. O meglio, il segretario di Stato statunitense torna in patria - dopo quello che con ogni probabilità sarà il suo ultimo viaggio nell’ex Celeste Impero - con il peso di una serie di “no”. Insomma ci si è parlati, ma restando fermi sulle proprie posizioni, secondo quanto recitano i comunicati ufficiali.

Non che ci si potesse aspettare di più da questa missione viste le polemiche e i reciproci attacchi che l’hanno proceduta e con Pechino che accusa sempre più apertamente Washington di attuare una politica di contenimento nei suoi confronti e di sostenere, quando non aizzare, le rivendicazioni dei Paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale come sul Pacifico settentrionale. E certamente non poteva rappresentare un buon viatico il progetto statunitense - rivelato a fine agosto dal Washington Post - di uno scudo antimissile asiatico dalle mal celate prerogative anti-cinesi.

E proprio in relazione al surriscaldamento delle acque asiatiche, la distanza politica e di principio tra le due potenze viene confermata. Mentre gli Usa, in nome della libertà di navigazione, insistono sulla necessità di un accordo tra le parti interessate - Cina, Vietnam, Filippine, Brunei, Taiwan, Malesia, Giappone - in ambito multilaterale, quindi nel quadro dell’Asean, Pechino ha ribadito la sua volontà di difendere una “indiscutibile” sovranità sulle acque e  isole contese (Diaoyu, Huangyan, Paracel e Spratly) e di ricercare soluzioni solo con i dialogo “tra i diretti interessati” e al di fuori da un contesto multilaterale.

Differenza certo non di poco conto: in questo modo gli Stati Uniti, che contano diversi alleati nell’Asean, sarebbero tagliati fuori. A segnalare tutta la delicatezza della questione e l’apertura di un nuovo fronte di attrito, il vertice di luglio dell’organizzazione asiatica si è concluso, per la prima volto dopo 45 anni, senza l’adozione di un comunicato congiunto segnando una indubbia vittoria diplomatica per Pechino e della sua politica di accordi bilaterali.

Stesso discorso anche per quando riguarda il fronte caldo siriano, in relazione al quale le posizioni restano agli antipodi, esacerbate dalle dure reazioni statunitensi al triplo veto posto dalla Cina, in accordo con la Russia, in sede di Consiglio di Sicurezza. Pure in questo caso, nulla di cui stupirsi.

Se da una parte si è più volte paventato, tra alleati della Nato come nel raggruppamento degli “Amici della Siria”, un intervento militare sotto forma di “no-fly zone” a protezione dei civili o di “safe zone” a protezione dei rifugiati in territorio siriano (la Turchia ha pure proposto anche una zona cuscinetto di 20 km per impedire operazione del PKK), dall’altra vengono ribaditi i principi del rispetto della sovranità e della non interferenza nelle questioni interne di Damasco.

Il timore di Pechino è che si arrivi alla riproposizione del modello libico, vale a dire di un attacco militare in piena regola con l’unico obiettivo di un cambio di regime. Alla richiesta occidentale e delle monarchie del golfo di un allontanamento di Assad, la Cina ha sempre opposto la via del dialogo tra forze di governo e di opposizione senza alcuna interferenza internazionale che non sia quella stabilita di comune accordo in sede Onu. In questo contesto va letta l'apertura del ministro degli Esteri Yang Jeichi ad una possibile “transizione politica” in Siria alla luce della radicalizzazione degli scontri in atto.

Posizioni inconciliabili, quindi, che risentono indubbiamente anche della delicata fase politica che attraversano i due Paesi. Se gli Stati Uniti sono ormai in piena campagna elettorale presidenziale (e la Cina rappresenta uno degli argomenti della disputa), la Cina vivrà ad ottobre il 18° congresso del Partito comunista che sancirà l’avvento al potere di una nuova generazione di governo. Ed è fuori di dubbio che a Pechino soffi con maggiore insistenza il vento del nazionalismo.

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