Russia, il trionfo di Putin

di Fabrizio Casari

Con una debordante vittoria elettorale di Vladimir Putin, si è conclusa la consultazione elettorale russa. Le operazioni di voto sono durate tre giorni, necessari per coprire il Paese più grande del mondo: un territorio immenso di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari diversi e 112 milioni di elettori su 146 milioni di abitanti. Il dato che balza immediatamente all’attenzione...
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Ecuador e Argentina: stessa rotta?

di Juan J.Paz-y-Miño Cepeda

L'Argentina è un Paese che ha sempre occupato un posto di rilievo nella storiografia sull'America Latina. È uno Stato con processi di enorme importanza per comprendere il modo in cui il capitalismo si è sviluppato nella regione. Attualmente è al centro dell'attenzione mondiale, perché per la prima volta nella storia è salito alla presidenza un politico libertario anticapitalista, che ha iniziato a imporre le misure che ritiene necessarie per cambiare il corso del Paese e avviarlo verso l'utopia del regno della "libertà" economica. Gli effetti di tale percorso stanno esplodendo di settimana in settimana, tanto che il presidente Javier Milei sta giocando al paradiso dell'impresa privata - perché questo è il contesto storico - a...
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di Michele Paris

Le crescenti divergenze sulla questione del nucleare iraniano tra Israele e Stati Uniti stanno emergendo in tutta loro evidenza in questi ultimi giorni attorno ad un possibile ultimatum che Washington dovrebbe imporre per fermare la presunta corsa della Repubblica Islamica verso la realizzazione di un ordigno nucleare. Anche se lo scontro tra i due alleati ha raggiunto toni insolitamente elevati, le reali differenze tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama appaiono puramente tattiche, dal momento che entrambi condividono in pieno l’obiettivo finale del cambio di regime a Teheran, anche con l’uso della forza.

La polemica tra i due governi ha fatto segnare il punto più critico nella giornata di martedì, quando il premier israeliano, nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme con il suo omologo bulgaro, ha affermato che i paesi che si rifiutano di “tracciare una linea rossa” nei confronti del programma nucleare iraniano non hanno “il diritto morale” di chiedere a Israele di aspettare prima di sferrare un attacco militare.

Lo sfogo di Netanyahu sembra essere giunto in risposta ad un’intervista rilasciata dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, il giorno precedente a Bloomberg Radio, durante la quale la ex first lady ha ribadito che gli USA non intendono considerare l’imposizione di alcuna “linea rossa” all’Iran e che esistono tuttora gli spazi per trovare una soluzione diplomatica alla crisi, evitando un intervento armato.

A questo scambio indiretto di battute si è aggiunta la notizia, apparsa martedì sera sul sito web dell’ambasciata israeliana a Washington, che l’amministrazione Obama ha respinto una richiesta del premier Netanyahu di incontrare il presidente democratico a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU di questo mese. Per la Casa Bianca il rifiuto non comporterebbe nessuno sgarbo ma sarebbe dettato dal fatto che i due leader saranno a New York in date diverse.

La spiegazione non ha comunque placato le polemiche e i malumori, così che Obama si è visto costretto a contattare telefonicamente Netanyahu, con cui ha parlato per almeno un’ora nella serata di martedì. Dopo il colloquio, la Casa Bianca ha emesso un comunicato di circostanza nel quale è stata ribadita la collaborazione di USA e Israele nell’affrontare la crisi iraniana e la volontà americana di impedire alla Repubblica Islamica di ottenere un’arma nucleare. Nessun riferimento è stato fatto tuttavia alla questione della “linea rossa” chiesta da tempo da Netanyahu.

Il mancato incontro a New York tra Obama e Netanyahu indica indubbiamente l’impazienza della Casa Bianca nei confronti dell’atteggiamento sempre più aggressivo attorno al nucleare iraniano del governo ultra-conservatore di Israele. Washington si rende conto infatti che l’imposizione di un ultimatum, che l’Iran non potrebbe ovviamente accettare, aumenterebbe sensibilmente le possibilità di un conflitto a dir poco rischioso.

Sui calcoli di Obama pesano d’altra parte anche le preoccupazioni elettorali che gli impediscono, da un lato, di muoversi per il momento verso una nuova guerra in Medio Oriente e, dall’altro, di tenere un atteggiamento troppo duro nei confronti di Israele o troppo tenero verso l’Iran, esponendolo agli attacchi repubblicani.

I rapporti tra Obama e Netanyahu, in ogni caso, sono apparsi complicati fin dal 2009, e quindi, secondo alcuni, il pressing di quest’ultimo avrebbe principalmente lo scopo di mettere in difficoltà il presidente americano in vista del voto di novembre, dal quale il premier israeliano preferirebbe di gran lunga vedere uscire vincitore Mitt Romney.

Di una strategia elettorale orchestrata da Tel Aviv potrebbero forse far parte anche la rivelazioni di settimana scorsa del deputato repubblicano Mike Rogers, presidente della commissione per i Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti americana. In un intervento radiofonico, Rogers ha infatti raccontato di aver partecipato ad una riunione in Israele nella quale Netanyahu avrebbe avuto un’accesa discussione con l’ambasciatore USA a Tel Aviv, Dan Shapiro, proprio sulla questione iraniana. Ad un certo punto, Netanyahu avrebbe perso la pazienza, criticando pesantemente gli Stati Uniti per non voler fissare una “linea rossa” all’avanzamento del programma nucleare di Teheran e per mantenere un atteggiamento troppo ambiguo che complica le scelte strategiche del suo paese.

Sulla questione della “linea rossa” - che potrebbe consistere nell’imposizione all’Iran di un limite alla percentuale di arricchimento o alla quantità di uranio arricchito - l’amministrazione Obama continua a ribadire la propria contrarietà. La Casa Bianca ha affermato ufficialmente di voler impedire che l’Iran ottenga un’arma nucleare ma non, come vorrebbe Netanyahu, che raggiunga le capacità tecniche per costruirne una. Quest’ultima situazione appare peraltro già una realtà che la Repubblica Islamica condivide con numerosi altri paesi.

Per convincere gli Stati Uniti e la comunità internazionale ad assumere posizioni ancora più dure nei confronti dell’Iran, Netanyahu, alla guida un paese che dispone di centinaia di testate nucleari non dichiarate senza aver mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, ricorre puntualmente ad una serie di affermazioni prive di fondamento.

Nel suo intervento di martedì a Gerusalemme, ad esempio, ha ripetuto che l’Iran sta continuando a muoversi senza interferenze verso la realizzazione di armi atomiche. In realtà, nessuna prova è stata finora presentata che il programma nucleare di Teheran sia diretto a fini militari, mentre il processo di arricchimento dell’uranio viene costantemente monitorato dai tecnici dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

Nonostante le recenti polemiche e l’evidente mancanza di sintonia tra Obama e Netanyahu, gli Stati Uniti non hanno mai escluso la possibilità di un’aggressione militare contro l’Iran. Sezioni dell’apparato della sicurezza e dell’intelligence americana ritengono però che un attacco non provocato sarebbe una mossa impopolare, oltre che illegale, e rischierebbe di essere controproducente, poiché con ogni probabilità compatterebbe la leadership iraniana e potrebbe danneggiare le relazioni con alcuni paesi mediorientali.

L’installazione di un regime più malleabile a Teheran per spezzare l’asse della resistenza anti-americana e anti-israeliana nella regione rimane tuttavia un punto condiviso sia da Washington che da Tel Aviv. Se il governo di Israele appare pronto a lanciare un’aggressione militare unilaterale, la strategia americana sembra piuttosto essere quella di provocare una reazione da parte dell’Iran per giustificare un intervento armato.

Le durissime sanzioni che stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana, l’accerchiamento militare, le ingenti forniture di materiale bellico a paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, nonché gli assassini e la campagna di sabotaggio contro gli impianti nucleari della Repubblica Islamica sembrano avere precisamente quest’ultimo scopo e indicano perciò in maniera inequivocabile come l’obiettivo ultimo degli Stati Uniti sia ben lontano da una soluzione pacifica della crisi in corso.

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