Russia, il trionfo di Putin

di Fabrizio Casari

Con una debordante vittoria elettorale di Vladimir Putin, si è conclusa la consultazione elettorale russa. Le operazioni di voto sono durate tre giorni, necessari per coprire il Paese più grande del mondo: un territorio immenso di oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari diversi e 112 milioni di elettori su 146 milioni di abitanti. Il dato che balza immediatamente all’attenzione...
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Ecuador e Argentina: stessa rotta?

di Juan J.Paz-y-Miño Cepeda

L'Argentina è un Paese che ha sempre occupato un posto di rilievo nella storiografia sull'America Latina. È uno Stato con processi di enorme importanza per comprendere il modo in cui il capitalismo si è sviluppato nella regione. Attualmente è al centro dell'attenzione mondiale, perché per la prima volta nella storia è salito alla presidenza un politico libertario anticapitalista, che ha iniziato a imporre le misure che ritiene necessarie per cambiare il corso del Paese e avviarlo verso l'utopia del regno della "libertà" economica. Gli effetti di tale percorso stanno esplodendo di settimana in settimana, tanto che il presidente Javier Milei sta giocando al paradiso dell'impresa privata - perché questo è il contesto storico - a...
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di Michele Paris

A oltre un mese di distanza dall’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, J. Christopher Stevens, le responsabilità e le circostanze relative alla morte del diplomatico americano rimangono al centro di un accesissimo dibattito che a Washington si è inserito prepotentemente nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Nonostante le indagini in corso, le numerose audizioni ordinate dal Congresso e i quotidiani scambi di accuse tra democratici e repubblicani, la fondamentale questione politica riguardante il paese nord-africano continua rigorosamente a rimanere fuori dalla discussione, vale a dire la condizione in cui esso è precipitato dopo la “liberazione” dal regime di Muammar Gheddafi e che ha reso possibili i fatti dell’11 settembre scorso.

Al centro dello scontro tra i due principali partiti d’oltreoceano ci sono soprattutto le responsabilità dell’amministrazione Obama e la sua valutazione dell’assalto di Bengasi che ha causato la morte dell’ambasciatore e di altri tre cittadini americani incaricati del servizio di sicurezza presso il consolato. I repubblicani sostengono che il presidente non abbia garantito un adeguato livello di sicurezza dell’edificio, nonché sottovalutato l’assalto, considerato inizialmente una protesta spontanea contro la diffusione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad.

Per i repubblicani l’attacco sarebbe stato invece una vera e propria operazione terroristica, attentamente pianificata e portata a termine da estremisti legati in qualche modo ad Al-Qaeda, verosimilmente affiliati al gruppo Ansar al-Shariah. I democratici, da parte loro, oltre a sostenere che la posizione presa dalla Casa Bianca al momento dei fatti si basava sulle informazioni disponibili in quel momento, accusano i repubblicani di cercare di politicizzare una tragedia dopo che essi stessi hanno contribuito ad implementare pesanti tagli alla sicurezza delle rappresentanze diplomatiche americane.

All’interno della stessa amministrazione Obama ci sono in ogni caso posizioni differenti. Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, un paio di settimane fa all’ONU aveva infatti dichiarato che esistevano possibilità concrete che i giustizieri di Stevens avessero legami con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), mentre proprio lunedì, nel corso di un’intervista alla CNN, la ex senatrice di New York si è assunta la piena responsabilità per non avere adeguatamente protetto il consolato di Bengasi.

Le parole della Clinton, secondo alcuni commentatori, sarebbero state pronunciate per cercare di limitare gli attacchi di Romney al presidente Obama su questo argomento nel secondo dibattito presidenziale di martedì a Long Island. L’ammissione segue però anche le polemiche sollevate dalle dichiarazioni rilasciate settimana scorsa di fronte ad un’apposita commissione della Camera dei Rappresentanti dall’ex responsabile della sicurezza per l’ambasciata USA in Libia, Eric Nordstrom. Quest’ultimo aveva sostenuto che il Dipartimento di Stato aveva negato la sua richiesta di estendere le misure di sicurezza esistenti e che prevedevano l’impiego di un team di soldati americani.

Al di là delle falle nei sistemi di sicurezza, la questione più rilevante, come già anticipato, è legata alle condizioni in cui versa la Libia dopo un anno dalla vittoria dei “ribelli” e dal barbaro assassinio di Gheddafi, avvenuto a Sirte il 20 ottobre 2011. Le operazioni militari NATO, scatenate grazie alla manipolazione della risoluzione 1975 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del marzo 2011, hanno cioè gettato uno dei paesi più stabili e relativamente floridi del continente africano nel caos, lasciandolo di fatto nelle mani di numerose milizie armate che si fronteggiano per il controllo del territorio mentre il governo centrale e le forze di sicurezza restano paralizzate e incapaci di imporre la propria autorità.

La presunta “liberazione” del paese e il propagandato arrivo della democrazia grazie all’intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati, oltre ad avere causato decine di migliaia di morti per prevenire la minaccia del regime di massacrare i propri cittadini in rivolta, ha permesso il proliferare sia di gruppi armati che si sono resi responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani sia di formazioni con legami ad Al-Qaeda che operano nel paese nella pressoché completa impunità, spesso contro gli stessi “liberatori” stranieri che li hanno sostenuti.

Estremamente significativo della situazione libica è poi l’assedio dei giorni scorsi posto dagli ex ribelli alla città di Bani Walid, dove rimarrebbero alcuni fedeli di Gheddafi. Nel silenzio dell’Occidente, i nuovi padroni della Libia hanno bombardato la città, hanno impedito per giorni l’ingresso di cibo e medicinali e, secondo quanto riferito dai medici che vi operano, hanno impiegato armi con gas velenosi come il Sarin anche contro quartieri residenziali.

La situazione dei diritti umani, in difesa dei quali sarebbe stata combattuta la guerra contro il precedente regime, è stata ad esempio descritta dalla ONG britannica International Center for Prison Studies, secondo la quale l’attuale popolazione carceraria della Libia, che ammonta a circa 9 mila detenuti, è alloggiata in gran parte in strutture improvvisate e, soprattutto, viene sottoposta regolarmente a torture. La Libia ha poi la più elevata percentuale di detenuti senza accuse formali o processo (89%), di cui una parte stranieri, per lo più lavoratori emigrati sub-sahariani di colore arrestati durante e dopo la guerra perché sospettati di essere sostenitori di Gheddafi solo per il colore della loro pelle.

In questo scenario, gli stessi gruppi estremisti che gli Stati Uniti hanno sostenuto e finanziato per rovesciare il regime hanno potuto organizzarsi liberamente e, grazie alle armi provenienti dai loro benefattori occidentali e arabi, hanno finito per mettere a segno operazioni come quella in cui ha perso la vita l’ambasciatore Stevens, egli stesso inviato precocemente nel paese lo scorso anno proprio per stabilire contatti più intensi con i ribelli e le formazioni jihadiste simili a quelle che lo hanno assassinato.

A Washington, però, si continua accuratamente ad evitare di sollevare il punto cruciale della crisi libica nel post-Gheddafi, poiché farlo in maniera seria comporterebbe con ogni probabilità mettere in discussione l’intera strategia anti-terrorismo americana lanciata dopo gli attacchi al World Trade Center. Inoltre, tale discussione porterebbe alla luce il vero motivo che ha portato alla pianificazione dell’operazione NATO in un paese ricco di risorse energetiche come la Libia, cioè la rimozione di un regime poco malleabile e troppo disponibile nei confronti di Russia e Cina.

Soprattutto, come dimostrano i dubbi che stanno attraversando la classe dirigente statunitense, ammettere il nuovo colossale errore di valutazione in Libia significherebbe dover ripensare l’approccio alla crisi in Siria, dove l’amministrazione Obama sta per molti versi replicando la strategica libica, appoggiando, armando e finanziando forze terroristiche per rovesciare Bashar al-Assad.

La situazione in Libia potrebbe infine subire un ulteriore drammatico cambiamento nel prossimo futuro, sia con possibili bombardamenti americani per punire i colpevoli della morte dell’ambasciatore Stevens, sia tramite un intervento con forze di terra che renderebbe ancora più esplosiva la realtà sul campo.

La conferma di quest’ultima ipotesi è giunta da un articolo di lunedì del New York Times, nel quale si afferma che il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno già concordato con il governo di Tripoli l’invio in Libia di reparti delle Forze Speciali americane per addestrare un forza anti-terrorismo indigena composta da 500 soldati.

A questo scopo sono già stati stanziati 8 milioni di dollari e il progetto ricalcherebbe quelli già messi in atto in Pakistan o in Yemen, due paesi, come la Libia, di grande importanza strategica per gli interessi americani e che perciò negli ultimi anni hanno visto aumentare l’impegno di Washington all’interno dei loro confini, come sempre in nome della lotta al terrorismo e in difesa della democrazia e dei diritti umani.

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