USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

In occasione del secondo anniversario dell’inizio della rivolta anti-regime in Bahrain, nella giornata di giovedì sono riesplose massicce proteste popolari nel piccolo paese del Golfo Persico. Come è puntualmente accaduto dal 14 febbraio 2011 ad oggi, le forze di sicurezza del regime guidato dal sovrano, Hamad bin Isa al-Khalifa, hanno ancora una volta risposto duramente alle manifestazioni di piazza, mettendo in grave pericolo i negoziati appena riaperti con le opposizioni ufficiali per trovare una qualche soluzione alla più lunga crisi finora registrata tra quelle ascrivibili alla cosiddetta Primavera Araba.

Già dalle prime ore di giovedì, dunque, centinaia di manifestanti sono scesi nelle strade dei quartieri a maggioranza sciita della capitale, Manama, e nelle altre principali città del paese. Secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno, i rivoltosi avrebbero bloccato numerose strade, costringendo la polizia e l’esercito a “ristabilire l’ordine”.

Gli scontri più recenti hanno fatto almeno un morto, un ragazzo di appena 16 anni colpito da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza nella località di Diya, non lontano da Manama. La notizia della morte del giovane manifestante è apparsa sul sito web del principale partito sciita di opposizione, Al Wefaq, secondo i cui esponenti ci sarebbero stati anche decine di feriti, principalmente a causa dell’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.

Nuove dimostrazioni sono già state organizzate per la giornata di venerdì, mentre svariati gruppi dell’opposizione hanno invocato uno sciopero generale in tutto il paese per celebrare l’anniversario dell’inizio della rivolta.

Il caos in Bahrain era esploso nel febbraio del 2011 dopo che, almeno inizialmente, un movimento popolare formato sia da sciiti che da sunniti aveva marciato per le strade della capitale chiedendo la fine del regime dittatoriale della famiglia Al Khalifa. Facendo leva sulle divisioni settarie che caratterizzano da secoli questo paese, tuttavia, la casa regnante appoggiata dall’Occidente ha da subito manipolato con successo le proteste, riuscendo a dividere la popolazione.

In particolare, il regime ha ripetutamente puntato il dito contro il vicino Iran, accusandolo senza alcuna evidenza di fomentare le proteste in Bahrain. Ben presto, così, ad animare la rivolta nel paese è rimasta pressoché esclusivamente la maggioranza sciita della popolazione.

D’altra parte, il malcontento degli sciiti, che rappresentano circa il 70% degli abitanti del Bahrain, non è cosa nuova, dal momento che essi sono regolarmente discriminati dal regime sunnita ed esclusi dalle posizioni di potere, così come, ad esempio, dagli impieghi governativi, dall’assegnazione di alloggi pubblici e dall’accesso alle migliori strutture scolastiche.

Per bilanciare questa disparità nella composizione della popolazione, inoltre, il regime continua a garantire procedure accelerate per l’ottenimento della cittadinanza a decine di migliaia di persone di fede sunnita provenienti da altri paesi della regione, tanto che degli 1,2 milioni di abitanti attuali solo poco meno di 600 mila risultano essere nativi del Bahrain.

In ogni caso, di fronte ad una comunità internazionale che alla crisi del Bahrain ha dato una rilevanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Libia o Siria, la repressione del regime ha finora provocato decine di morti: 35 secondo le stime di una commissione d’inchiesta lanciata dal governo, più di 80 per le opposizioni ufficiali.

A questi numeri, con ogni probabilità sottostimati ma comunque consistenti per un paese delle dimensioni del Bahrain, vanno inoltre aggiunti gli arresti e le torture di migliaia di militanti sciiti e di medici colpevoli solo di avere prestato soccorso ai manifestanti feriti durante gli scontri, ma anche la privazione della cittadinanza per molti militanti che avevano preso parte alle manifestazioni.

La prima fase della rivolta era stata poi soffocata nel sangue già nella primavera del 2011 grazie al contributo decisivo di un contingente militare inviato dalle monarchie assolute del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui regime continua a temere la possibilità di un contagio dell’insurrezione in Bahrain nelle proprie provincie a maggioranza sciita.

La repressione delle manifestazioni da parte della famiglia Al Khalifa è stata resa possibile principalmente grazie al più o meno tacito appoggio degli Stati Uniti, per i quali il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, vista la sua posizione nel Golfo Persico a meno di 200 chilometri dalle coste iraniane. Qui, inoltre, si trova il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.

In seguito alle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama ha talvolta emesso blande dichiarazioni di condanna nei confronti della casa regnante del Bahrain, giungendo nel settembre 2011 a sospendere un contratto di fornitura di armi da oltre 50 milioni di dollari a causa delle evidenti violazioni dei diritti umani. Le forniture di armi, tra cui equipaggiamenti utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti, sono però state sbloccate già nel maggio successivo, secondo Washington grazie ai progressi registrati nel paese.

Anche dietro le pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per il danno d’immagine causato dal ripetersi degli scontri nel Bahrain, già nel 2011 erano stati lanciati i primi colloqui tra il regime e le opposizioni. Il dialogo si è però quasi subito arenato di fronte alla totale mancanza di volontà del regime di rinunciare anche solo parzialmente al controllo assoluto delle leve del potere.

Le opposizioni, inoltre, risultano divise al loro interno, con il partito Al Wefaq che è attestato su posizioni moderate, mentre i movimenti della società civile, tra cui spicca la Coalizione 14 Febbraio, hanno progressivamente assunto atteggiamenti più radicali fino a chiedere la fine del regime Al Khalifa.

Proprio alla vigilia del secondo anniversario della rivolta, il governo ha invitato le opposizioni a tornare al tavolo delle trattative, così che domenica scorsa il dialogo era ripreso tra i rappresentanti del regime e di alcuni gruppi di opposizione, come Al Wefaq. Le richieste di questi ultimi sono però limitate, come la creazione di una monarchia costituzionale, e volte quasi esclusivamente ad ottenere un qualche ruolo nella gestione del potere.

Tra la popolazione, al contrario, il sentimento di avversione verso il regime ha superato ormai i livelli di guardia e, qualsiasi eventuale “riforma” su cui si accorderanno le due parti, le tensioni nel paese difficilmente potranno essere placate nell’immediato futuro.

Concessioni relativamente limitate da parte del regime erano infatti già state adottate negli anni Novanta del secolo scorso, sempre in risposta a sollevazioni popolari contro il regime. La natura dittatoriale della monarchia Al Khalifa, appartenente ad una tribù originaria del Qatar che invase il Bahrain sul finire del XVIII secolo, è rimasta però stanzialmente invariata, così come l’emarginazione della maggioranza della popolazione sciita, lasciando così intatte tutte le contraddizioni di questo minuscolo ma importante paese dove proteste e repressione hanno caratterizzato quasi ogni giorno degli ultimi 24 mesi.

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