Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Michele Paris

L’ultima tappa della trasferta in Estremo Oriente del presidente americano Obama è stata caratterizzata dalla firma di un importante trattato decennale con il governo delle Filippine che consentirà ad un contingente delle forze armate statunitensi di tornare ad occupare alcune basi militari nel paese-arcipelago del sudest asiatico. L’intesa, allo studio da tempo, è stata siglata alla vigilia dell’arivo di Obama a Manila dal segretario alla Difesa filippino, Voltaire Gazmin, e dall’ambasciatore USA, Philip Goldberg.

Il testo dell’accordo è stato redatto con la precisa intenzione di occultare sia le modalità della sua applicazione che gli obiettivi reali che hanno portato alla firma, fondamentalmente per via della diffusa ostilità popolare nei confronti della presenza militare della ex potenza coloniale nelle Filippine e per aggirare la proibizione prevista dalla Costituzione di questo paese in merito alla creazione di basi militari straniere permanenti entro i propri confini.

Secondo i due governi, infatti, il trattato bilaterale non sarebbe rivolto al contenimento o all’accerchiamento della Cina, mentre servirebbe unicamente a favorire l’addestramento delle forze armate filippine e la cooperazione in caso di missioni umanitarie o di assistenza in seguito a disastri naturali. La presenza di soldati USA, viene spiegato inoltre, non sarà permanente ma a “rotazione” e l’accesso alle basi filippine avverrà a seguito di “inviti” del governo di Manila.

In realtà, l’accordo appena mandato in porto con le Filippine rientra in pieno nei piani strategici americani per incrementare le pressioni sulla dirigenza cinese e cercare di subordinare gli interessi di Pechino in quest’area del globo a quelli degli Stati Uniti.

La rilevanza dell’accordo è evidente anche dal fatto che esso giunge a oltre due decenni di distanza dalla decisione presa dalle Filippine di chiudere le basi americane sul proprio territorio dopo quasi un secolo di presenza militare a stelle e strisce. La collaborazione in ambito militare tra Washington e Manila, peraltro, era ripresa già a partire dal 2002 e, soprattutto con il pretesto della lotta al terrorismo, alcuni contingenti USA sono stati da allora impiegati nelle Filippine.

D’ora in avanti, tuttavia, la presenza americana risulterà più massiccia e, per ammissione del responsabile per l’Asia del Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA, Evan Medeiros, i vertici militari americani potrebbero prendere in considerazione l’utilizzo di “svariate strutture” ancora da costruire o già esistenti, tra cui la base navale di Subic, occupata dalle forze degli Stati Uniti fino al 1992.

Quella con le Filippine è dunque solo l’ultima e probabilmente più esplicita manovra da parte americana per rafforzare i legami militari con gli alleati asiatici, come è apparso evidente dalla visita di Obama nel continente.

La settimana scorsa in Giappone, ad esempio, il presidente democratico ha ribadito l’impego del suo paese a fianco di Tokyo in caso di “aggressione” da parte cinese in relazione alle isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino.

Successivamente, in Corea del Sud, la presidente Park Geun-hye ha accettato le richieste americane di rimandare a dopo il dicembre del 2015 il trasferimento da Washington a Seoul del comando militare operativo delle forze armate indigene in tempo di guerra. Inoltre, la Corea del Sud ha dato il via libera all’integrazione del proprio sistema di difesa anti-missilistico con lo scudo anti-balistico che gli USA stanno pianificando nella regione, sempre in funzione anti-cinese.

La prima visita di un presidente americano in Malaysia da quasi mezzo secolo a questa parte, infine, ha portato risultati interessanti per gli Stati Uniti, soprattutto alla luce del fatto che questo paese - a differenza degli altri tre inclusi nel tour asiatico di Obama - non è formalmente un alleato di Washington.

Il comunicato ufficiale del governo malese ha cioè sottolineato la propria adesione ai principi avanzati dagli americani in merito alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, da risolversi attraverso un arbitrato internazionale e non con trattative bilaterali come vorrebbe Pechino.

Obama e il primo ministro Najib Razak hanno poi annunciato un innalzamento del livello delle relazioni tra i due paesi, legati ora da quella che è stata definita come una “partnership completa”, e ribadito la cooperazione militare in essere da tempo. In cambio, l’inquilino della Casa Bianca ha dato la propria legittimazione al governo autoritaro di Kuala Lumpur, rifiutandosi di incontrare il leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, e tacendo sulle più recenti disavventure giudiziarie di quest’ultimo, vittima recentemente di nuovi procedimenti motivati politicamente.

Come è accaduto in occasione delle precedenti tappe del viaggio di Obama nei giorni scorsi, anche lunedì i media cinesi hanno accolto con estrema diffidenza le iniziative degli USA e dei loro alleati, così come le rassicurazioni del presidente che le intenzioni di Washington nulla avrebbero a che vedere con i tentativi di contenere l’espansione di Pechino.

Per l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, dunque, l’accordo difensivo tra gli Stati Uniti e le Filippine sarebbe “allarmante” e potrebbe spingere il governo di Manila ad intraprendere azioni “sconsiderate”. Secondo lo stesso editoriale, “l’amministrazione del presidente filippino Benigno Aquino ha messo in chiaro le proprie intenzioni: cercare il confronto con la Cina grazie all’appoggio degli USA”, rendendo perciò più difficile, “se non impossibile, una soluzione amichevole alle dispute territoriali” in corso.

L’atteggiamento sempre più provocatorio nei confronti della Cina da parte del presidente Aquino è indubbiamente la conseguenza dell’incoraggiamento americano, anche se gli stessi Stati Uniti, nonostante la retorica, continuano ad essere protagonisti diretti di gesti volti a mettere pressioni su Pechino.

Un articolo pubblicato lunedì dal Wall Street Journal, ad esempio, ha rivelato come il Comando USA dell’area Pacifico abbia già preparato una serie di risposte da mettere in atto in caso di “qualsiasi futura provocazione cinese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale”.

Le misure previste - che vanno dall’invio di bombardieri B-2 ad esercitazioni di portaerei nei pressi delle coste della Cina - servirebbero anche a rassicurare gli alleati asiatici preoccupati per una possibile azione da parte di Pechino simile a quella russa in Crimea.

Simili “analisi” giornalistiche, così come gli annunci del governo di Washington, tralasciano però puntualmente di spiegare le vere ragioni della crisi ucraina come del vertiginoso aumento delle tensioni in Asia orientale, da ricercare non nelle ambizioni di Russia o Cina, bensì precisamente nella stessa provocatoria politica estera degli Stati Uniti.

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