Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Michele Paris

Dopo tre tentativi falliti di conquistare la presidenza della Nigeria, l’ex dittatore e generale in pensione, Muhammadu Buhari, ha sconfitto nelle elezioni di sabato scorso il presidente in carica, Goodluck Jonathan, grazie soprattutto al processo di deterioramento del clima economico e sociale nella prima economia del continente africano durante la gestione dell’amministrazione uscente.

La vittoria di Buhari e del suo partito - Congresso di Tutti i Progressisti (APC) - ha segnato la prima transizione favorevole a un esponente dell’opposizione sanzionata dalle urne da quando, nel 1999, la Nigeria si è liberata della dittatura militare.

L’esito del voto riporta anche alla guida di questo paese un presidente musulmano, dopo che il cristiano Jonathan nel 2011 si era presentato alle elezioni, vincendole, in violazione del tacito accordo tra le élites nigeriane che prevede l’alternanza tra un leader musulmano e uno cristiano.

Jonathan, in qualità di vice-presidente, aveva preso il posto del presidente musulmano Umaru Yar’Adua al momento del decesso di quest’ultimo nel 2010, mentre l’anno successivo aveva sconfitto proprio Buhari. Anche nelle elezioni del 2003 e del 2007, l’ex generale aveva ceduto molto nettamente ai candidati del Partito Popolare Democratico – rispettivamente Olusegun Obasanjo e Yar’Adua – al potere ininterrottamente in Nigeria dal 1999.

Al voto di sabato, il paese più popoloso dell’Africa era giunto tra gravi difficoltà e crisi crescenti. La stessa regolarità dell’appuntamento con le urne era stata messa in dubbio da molti, in particolare dopo la decisione presa dal presidente Jonathan di posporre di sei settimane le elezioni, inizialmente previste per il mese di febbraio, su “suggerimento” delle forze di sicurezza a causa della precaria situazione in molte aree del paese in seguito al dilagare dei guerriglieri fondamentalisti di Boko Haram.

Durante le operazioni di voto sono state segnalate irregolarità ed episodi di violenza ma, alla fine, il margine tra i due principali candidati è apparso nettissimo e le organizzazioni internazionali e i governi stranieri hanno dato il proprio sigillo di legittimità alle elezioni.

Buhari ha ottenuto il 54% dei suffragi contro il 45% di Jonathan. Una differenza quantificabile cioè in oltre due milioni di voti: 15,4 milioni per il presidente-eletto e 13,3 milioni per il suo rivale. Buhari ha avuto la meglio non solo negli stati settentrionali a maggioranza musulmana, ma è stato il più votato anche nel sud-ovest e nel centro del paese, così come nella megalopoli Lagos, capitale commerciale della Nigeria.

Secondo la Costituzione della Nigeria, il candidato vincente al primo turno può evitare il ballottaggio se, oltre a ottenere complessivamente il maggior numero di voti, riceve almeno un quarto dei voti in almeno i due terzi dei 36 stati in cui è suddiviso amministrativamente il paese.

Oltre ai risultati ufficiali presumibilmente inequivocabili, a convincere il presidente uscente a riconoscere la sconfitta e a congratularsi con Buhari è stata con ogni probabilità la velata ma chiarissima preferenza per il suo avversario manifestata dai paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti e dall’ex potenza coloniale, la Gran Bretagna.

Il segretario di Stato USA, John Kerry, e il ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, lunedì avevano emesso un insolito comunicato congiunto, nel quale si sosteneva che, pur “non avendo finora osservato una sistematica manipolazione del processo” di voto, vi erano “preoccupanti segnali” di possibili “deliberate interferenze politiche” sul conteggio finale dei voti.

Ambienti diplomatici degli stessi paesi avevano in seguito rivelato l’esistenza di presunte richieste fatte “dal partito di governo e dal presidente” alle forze armate per “intimidire” gli addetti alle operazioni di conteggio.

Come sempre accade con Washington, simili prese di posizioni non sono il sintomo di scrupoli democratici da parte del governo americano, bensì segnali del proprio orientamento in merito all’evoluzione politica di un determinato paese. Le indicazioni della preferenza per l’ex generale Buhari da parte degli USA erano d’altra parte evidenti.

Per la campagna elettorale del vincitore, ad esempio, aveva lavorato la società di consulenze americana di David Axelrod, strettissimo consigliere di Obama per il quale aveva curato le operazioni strategiche durante la corsa alla Casa Bianca del 2008.

Il livello di gradimento di Buhari nei circoli di potere d’oltreoceano era apparso poi chiaro dall’invito ricevuto da parte dell’influente think tank di Washington, Center for Strategic and International Studies, a tenere un discorso - poi cancellato - in una conferenza nel mese di gennaio. Buhari ha anche un passato di studi negli Stati Uniti, visto che tra il 1979 e il 1980 ha frequentato il College dell’Esercito di Carlisle, in Pennsylvania, conseguendo un Master in “studi strategici”.

I suoi trascorsi da dittatore non sono inoltre un ostacolo all’ottenimento del sostegno americano. Anzi, la repressione del dissenso e dell’opposizione al regime durante gli anni alla guida della giunta militare è un precedente utile agli occhi dei governi e delle compagnie petrolifere occidentali, in caso Buhari, nonostante la “conversione” alla democrazia, fosse chiamato a fronteggiare rivolte interne che minaccino il flusso di greggio prodotto dal suo paese.

Buhari era stato uno degli ufficiali protagonisti del colpo di stato messo in atto nel dicembre del 1983 contro il governo del presidente democraticamente eletto Shehu Shagari. Prima di essere a sua volta deposto nell’agosto del 1985 da un golpe militare, guidato dal generale Ibrahim Babangida, Buhari aveva condotto una campagna di arresti ai danni di intellettuali, politici, giornalisti e studenti, mentre sul fronte economico si era distinto per l’adozione di misure ancora più rigorose di quelle raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale.

Il favore manifestato dagli USA nei confronti di Buhari è la diretta conseguenza del precipitare delle relazioni tra Washington e l’amministrazione del presidente Jonathan. Quest’ultimo lo scorso anno era giunto a cancellare un programma di addestramento di nuove unità militari nigeriane operato da istruttori americani.

La mossa di Jonathan intendeva essere una protesta contro il mancato impegno di Washington in appoggio alle forze armate della Nigeria nella guerra a Boko Haram.

Ad alimentare i sospetti di Jonathan erano stati probabilmente anche i ripetuti interventi sul territorio nigeriano per combattere i ribelli integralisti da parte degli eserciti di paesi confinanti, primo fra tutti il Ciad, il cui regime è uno dei più fedeli alleati dell’Occidente.

In questo modo, il governo della Nigeria è apparso ulteriormente screditato agli occhi della popolazione, già provata sia dall’incapacità di frenare le violenze di Boko Haram sia dai massacri indiscriminati commessi dalle stesse forze di sicurezza nel corso delle operazioni di “anti-terrorismo” nel nord del paese.

La transizione “democratica” tra Goodluck Jonathan e Muhammadu Buhari si inserisce soprattutto nel quadro delle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati europei per assicurarsi una presenza permanente in Africa occidentale. Qui come in Medio Oriente, il pretesto dell’interventismo occidentale è rappresentanto dalla necessità della lotta al terrorismo islamista, nel caso della Nigeria incarnato appunto in Boko Haram.

L’importanza della Nigeria per gli USA è dettata poi principalmente dalle ingenti risorse petrolifere di cui dispone e che sono in larga misura sfruttate da compagnie occidentali. Inevitabilmente, l’offensiva di Washington in Africa è legata anche al tentativo di contrastare l’influenza della Cina nel continente, cresciuta a livelli esponenziali nell’ultimo decennio.

Anche la Nigeria di Jonathan ha infatti stabilito solidi legami economici con Pechino nel recente passato. Nel luglio del 2013, ad esempio, una visita del presidente in Cina aveva portato alla firma di accordi per prestiti da oltre un miliardo di dollari destinati alla realizzazione di varie infrastrutture.

Compagnie cinesi sono peraltro già ampiamente presenti in Nigeria e operano anche nel settore petrolifero, mentre la solidità dei rapporti bilaterali era stata ribadita lo scorso mese di maggio con la visita nella capitale, Abuja, del premier cinese, Li Keqiang.

La sconfitta patita da Jonathan alle urne è però dovuta anche e soprattutto all’aggravamento durante la sua amministrazione delle piaghe che affliggono la Nigeria. Oltre alle attività di Boko Haram, gli elettori nigeriani avevano in mente i numerosi casi di corruzione registrati negli ultimi tempi e, ancor più, le esplosive e crescenti disuguaglianze sociali.

Scalpore aveva fatto qualche mese fa il licenziamento del governatore della Banca Centrale dopo che aveva denunciato al Senato nigeriano la sottrazione al Tesoro di fondi per svariati miliardi di dollari provenienti dalle attività petrolifere.

Sempre in questo settore, il governo viene inoltre costantemente accusato di coltivare rapporti clientelistici con intermediari che realizzano profitti enormi sulle vendite di greggio. Simili pratiche hanno contribuito alla formazione di una ristretta cerchia di super-ricchi e a fare della Nigeria uno dei paesi più iniqui del continente.

Come ha messo in luce una recente analisi del britannico Guardian, nonostante il recente crollo delle quotazioni del petrolio, l’economia nigeriana nell’ultimo decennio ha fatto segnare tassi di crescita costantemente vicini al 7% annuo. Tuttavia, mentre il numero dei milionari nel paese è cresciuto in sei anni del 44%, salendo a 16 mila, il livello di povertà assoluta è passato dal 55% nel 2004 al 61% nel 2014.

Al di là del relativamente pacifico passaggio di consegne celebrato dalla stampa internazionale, dunque, la nuova leadership politica non avrà nulla da offrire per alleviare la miseria totale in cui versa la maggior parte dei nigeriani. Il processo “democratico” a cui si è assisito nei giorni scorsi non è infatti che un avvicendamento tra due sezioni della classe dirigente del paese africano, ugualmente ostili alle masse impoverite della popolazione e legate invece, per le proprie fortune, al capitale internazionale.

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