Ucraina, l’illusione delle armi

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L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Michele Paris

Alcune notizie contraddittorie circolate negli ultimi giorni hanno prospettato l’inizio di una nuova fase della guerra lanciata dall’Arabia Saudita a fine marzo contro lo Yemen e i “ribelli” Houthi sciiti. Riyadh avrebbe cioè inviato le prime truppe di terra per combattere sul fronte yemenita, anche se gli uomini che nel fine settimana sarebbero sbarcati nella citta meridionale di Aden non sarebbero delle forze armate saudite ma proverrebbero da altri paesi arabi o dallo stesso Yemen.

La notizia di una mini-invasione guidata dalla monarchia saudita è stata diffusa da network come Al Jazeera ed è stata confermata da autorità yemenite alla stampa internazionale. La AFP, ad esempio, ha parlato domenica di un numero “limitato” di soldati della coalizione guidata dall’Arabia Saudita giunti a Aden, mentre altre truppe di terra sarebbero pronte ad essere impiegate.

Un portavoce della cosiddetta “Resistenza Popolare” anti-Houthi nel sud del paese ha sostenuto in un’intervista alla Reuters che i nuovi combattenti risultano essere tutti di nazionalità yemenita. Altre testimonianze citate dalla stampa raccontano di soldati sudanesi e degli Emirati Arabi, impegnati in particolare nel tentativo di riprendere il controllo dell’aeroporto di Aden, conquistato settimana scorsa dagli Houthi.

Le forze di terra inviate da Riyadh hanno sostenuto un periodo di addestramento nel regno e sarebbero arrivate nella città portuale dello Yemen via mare dal vicino Gibuti, il piccolo paese africano affacciato sul Golfo di Aden che ospita svariate basi militari di paesi occidentali e dei loro alleati.

Dal regime saudita sono giunte in ogni caso smentite, con il generale Ahmed al-Asiri che ha escluso ci siano forze straniere a Aden, ribadendo però la volontà della “coalizione di contribuire alla lotta contro la milizia Houthi” e reinsediare al potere in Yemen il presidente-fantoccio, Abd Rabbu Manosur Hadi.

Nella giornata di lunedì, inoltre, il neo-ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha fatto sapere che la coalizione starebbe valutando la possibilità di dichiarare una tregua in alcune “aree specifiche” dello Yemen, così da consentire l’ingresso di “forniture umanitarie”.

In ogni caso, se la notizia dell’invio delle prime truppe di terra in Yemen fosse confermata segnerebbe una svolta significativa nell’aggressione saudita in atto dalla fine di marzo per fermare l’avanza dei “ribelli” sciiti e il tracollo delle istituzioni dello stato nel paese più povero del mondo arabo.

Di fronte al sostanziale fallimento di settimane di bombardamenti aerei, l’Arabia Saudita sembra essere ora sul punto di intensificare il proprio impegno in Yemen, nonostante le conseguenze già catastrofiche per la popolazione civile dopo la prima fase delle operazioni.

L’evoluzione della campagna militare smentisce anche quanto annunciato un paio di settimana fa da Riyadh, quando venne proclamata la fine dell’operazione “Tempesta Decisiva” e l’avvio di quella denominata “Restituzione della Speranza”, teoricamente per iniziare a ricostruire lo Yemen e rilanciare un qualche processo politico.

Un’eventuale operazione di terra rischia anche di far salire ulteriormente le tensioni tra i regimi sunniti che fanno parte della coalizione promossa dall’Arabia Saudita e l’Iran, accusato di essere dietro i successi militari degli Houthi in Yemen.

Proprio nel fine settimana, Teheran ha collegato per la prima volta la crisi in quest’ultimo paese alla propria sicurezza nazionale, lasciando presagire possibili iniziative dirette anche verso gli Stati Uniti, i quali continuano ad approvare più o meno tacitamente le azioni saudite e a fornire supporto logistico alle operazioni in territorio yemenita.

Se le bombe della coalizione anti-Houthi poco o nulla hanno fatto per fermare i “ribelli” sciiti e le forze fedeli all’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, che li sostengono, le operazioni militari hanno fatto diventare ben presto drammatica la situazione umanitaria nello Yemen. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la guerra ha fatto finora più di 1.200 vittime, di cui almeno la metà civili.

Centinaia di migliaia di yemeniti sono stati poi costretti a lasciare il paese o le loro abitazioni, mentre le infrastrutture interne sono sull’orlo del collasso. Un portavoce delle Nazioni Unite ha affermato che “i servizi ancora disponibili relativi all’assistenza sanitaria, alla fornitura di cibo e acqua stanno sparendo velocemente”, soprattutto a causa dell’impossiblità di importare carburante e altro materiale di prima necessità in seguito al blocco imposto dall’Arabia Saudita.

Non solo la campagna saudita contro lo Yemen appare a tutti gli effetti un’aggressione contraria al diritto internazionale ma le forze del regime di Riyadh continuano a fare ricorso a metodi criminali che prendono di mira i civili in maniera deliberata.

Dopo i numerosi casi di bombardamenti aerei diretti contro edifici civili segnalati nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita è stata accusata nel fine settimana da Human Rights Watch (HRW) di avere utilizzato “cluster bombs”, ovvero “bombe a grappolo” bandite dalla gran parte dei paesi del pianeta per il loro potenziale distruttivo indiscriminato.

Queste armi contengono, all’interno dell’ordigno principale, delle “sub-munizioni” di misura inferiore che si diffondono in un’area più o meno ampia dal punto in cui vengono lanciate o sganciate. Le “cluster bombs” sono considerate particolarmente pericolose anche perché le “sub-munizioni” che le compongono spesso non esplodono immediatamente, ma possono rimanere innescate per anni, con le prevedibili conseguenze sulla popolazione civile.

Più di 100 paesi hanno firmato una convenzione per mettere al bando le “cluster bombs” nel 2008, ma tra di essi non figurano né l’Arabia Saudita o le altre monarchie del Golfo Persico né gli Stati Uniti. Gli USA prevedono tuttavia che la vendita di questi ordigni a paesi esteri sia consentita solo se essi non vengono usati contro obiettivi civili.

Il rapporto diffuso da HRW si basa sul racconto di testimoni, ma anche su materiale fotografico e filmati, relativo all’impiego di “cluster bombs” da parte saudita nel corso di bombardamenti contro le postazioni degli Houthi. In una circostanza, gli ordigni sarebbero caduti in un’area a poche centinaia di metri da decine di edifici civili, anche se l’organizzazione statunitense non è stata in grado di stabilire con certezza eventuali danni o vittime dovuti agli attacchi.

Le armi in questioni usate in Yemen sono state vendute all’Arabia Saudita dalla compagnia americana Textron Systems in base a un contratto di fornitura siglato nel 2013. Per HRW, anche gli Emirati Arabi nel 2010 avevano ricevuto un numero imprecisato di “cluster bombs” dalla stessa azienda in seguito alla stipula di un contratto datato 2007.

Il governo americano, d’altra parte, mostra tradizionalmente ben pochi scrupoli nel fornire armamenti letali e al limite della legalità a regimi dittatoriali che ne fanno ampio uso contro le popolazioni civili. Ciò non impedisce a Washington di puntare il dito contro governi poco graditi quando emergono indizi sull’utilizzo da parte di questi ultimi di queste stesse armi.

Nel 2012, ad esempio, il regime di Assad venne accusato di avere sganciato proprio “cluster bombs” sui civili in Siria, provocando dure condanne che ora stridono con il silenzio dei governi occidentali sulle recenti rivelazioni di HRW.

L’Arabia Saudita non è peraltro nuova a questi metodi di guerra, visto che varie organizzazioni a difesa dei diritti umani avevano accusato le forze del regno di avere impiegato “cluster bombs” nel 2009 sempre in Yemen e sempre nel corso di attacchi aerei contro gli Houthi nel governatorato settentrionale di Saada.

Gli stessi Stati Uniti non hanno nulla da invidiare ai loro alleati quando si tratta di crimini di guerra. Per limitarsi alle “cluster bombs” e allo Yemen, le forze navali americane sempre nel 2009 avevano lanciato questi ordigni su un’area che ospitava un campo di addestramento di Al-Qaeda. Per le autorità yemenite, in quell’occasione furono uccisi 14 militanti assieme a decine di civili innocenti.

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