Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Ucraina, l’illusione delle armi

di Michele Paris

L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e in Europa. I quasi 61 miliardi appena stanziati non faranno però nulla per cambiare il corso della guerra e, se anche dovessero riuscire a rimandare la resa ucraina, aggraveranno con ogni probabilità i livelli di distruzione e morte nel paese dell’ex Unione Sovietica. La propaganda di governi e media ufficiali, scattata subito dopo il voto in...
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di Michele Paris

A pochi giorni dal voto del Congresso americano sull’accordo per il nucleare iraniano, raggiunto a Vienna lo scorso mese di luglio, i leader democratici e l’amministrazione Obama stanno producendo il massimo sforzo per raccogliere i consensi necessari all’interno della delegazione del loro partito e neutralizzare gli effetti di un voto contrario praticamente certo da parte della maggioranza repubblicana.

La Camera e il Senato di Washington dovrebbero esprimersi sull’intesa che ha sbloccato lo stallo attorno al programma nucleare della Repubblica Islamica pochi giorni prima dell’ultima data utile, prevista per il 17 settembre.

L’accordo, siglato dagli USA e dagli altri paesi che formano il gruppo dei P5+1 (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), non è in realtà un trattato formale sul quale il Congresso USA è chiamato per legge a dare la propria approvazione. Il voto di settembre è invece la conseguenza di un compromesso raggiunto mesi fa tra il presidente Obama e la leadership repubblicana, fortemente contraria all’accordo e ben decisa a rivendicare il diritto di bocciarlo o ratificarlo in cambio dell’astensione al boicottaggio dello sforzo diplomatico promosso dalla Casa Bianca.

Anche se molti deputati e senatori non hanno ancora manifestato pubblicamente la propria intenzione di voto, i numeri sembrano al momento essere favorevoli a Obama e, quindi, alla sostanziale ratifica dell’accordo. L’approvazione del testo negoziato a Vienna difficilmente potrà però risparmiare un imbarazzo politico al presidente.

La maggioranza del Congresso respingerà infatti l’accordo sul nucleare, il quale verrà salvato soltanto dal veto di Obama o, tutt’al più, da un consolidato ostacolo procedurale previsto dalle regole del Senato (“filibuster”).

In quest’ultimo caso, l’imbarazzo per Obama sarebbe tutto sommato relativo, visto che formalmente non ci sarebbe un voto contrario, anche se saranno necessari almeno 41 voti su 100 a favore dell’accordo. Dal momento che tutti i senatori repubblicani dovrebbero votare contro e che i democratici occupano 46 seggi alla camera alta del Congresso, la Casa Bianca può permettersi di perdere cinque senatori e riuscire comunque a impedire la bocciatura dell’accordo.

Se i repubblicani dovessero invece spuntarla e far passare una risoluzione di condanna in entrambe le camere, privando il presidente dell’autorità di sospendere le sanzioni contro l’Iran approvate dal Congresso, come già ricordato Obama sarà costretto a ricorrere al veto e la Casa Bianca dovrà garantirsi l’appoggio di almeno 34 senatori per evitare che esso venga annullato con un voto dei due terzi dei membri di Camera e Senato.

Finora, solo due senatori democratici hanno dichiarato pubblicamente di voler votare contro l’accordo: il probabile prossimo leader del partito al Senato, Chuck Schumer (New York), e Robert Menendez (New Jersey). Tra i favorevoli spicca invece il leader di minoranza, Harry Reid (Nevada), la cui decisione annunciata domenica scorsa potrebbe incoraggiare altri colleghi a seguirne l’esempio.

Come ha spiegato martedì il New York Times, la garanzia di un voto favorevole all’accordo data recentemente da senatori democratici provenienti da stati dominati politicamente dai repubblicani – come Joe Donnelly dell’Indiana o Claire McCaskill del Missouri – ha fatto aumentare sensibilmente le probabilità di un esito positivo per la Casa Bianca.

Le attenzioni sono concentrate in larga misura sul Senato, poiché alla Camera, dove non è prevista la clausola del “filibuster”, gli equilibri sembrano ormai consolidati. Qui, la netta maggioranza repubblicana assicurerà la bocciatura dell’accordo sul nucleare ma le possibilità di mettere assieme il numero di voti necessari a cancellare il veto presidenziale appaiono attualmente piuttosto scarse.

Ai repubblicani servirebbero 146 voti di deputati democratici, ma qualche mese fa ben 150 membri del partito di Obama alla Camera avevano sottoscritto una lettera aperta a favore dell’accordo. A tutt’oggi, da questo gruppo non si segnalano defezioni, mentre una manciata di altri deputati democratici ha nel frattempo dichiarato il proprio appoggio all’intesa raggiunta a Vienna.

I timori che i vertici democratici nutrono in vista del voto di metà settembre sono legati per lo più alla possibilità che i repubblicani possano collegare alla risoluzione relativa all’accordo con l’Iran alcuni emendamenti politicamente difficili da respingere, come la richiesta che Teheran riconosca Israele o che vengano liberati alcuni cittadini americani detenuti nelle carceri della Repubblica Islamica.

Eventuali emendamenti relativi a Israele risulterebbero problematici per vari senatori che tradizionalmente sono molto legati alla lobby ebraica, protagonista in questi mesi a Washington di un’accesa quanto dispendiosa campagna contro l’accordo.

Alcuni senatori ufficialmente ancora indecisi, perciò, sembrano intenzionati a chiedere rassicurazioni alla Casa Bianca, al fine di garantire la superiorità militare di Israele in Medio Oriente o la difesa dell’alleato da una fantomatica minaccia militare iraniana.

Le prospettive di sopravvivenza dei frutti di una trattativa diplomatica internazionale durata anni non sono ad ogni modo legate soltanto alle manovre o ai calcoli aritmetici dei membri del Congresso americano. I contrasti osservabili a Washington su un accordo dalle potenziali conseguenze strategiche enormi riflettono piuttosto le divisioni esistenti all’interno della classe dirigente d’oltreoceano circa l’approccio da tenere nei confronti dell’Iran e, ancor più, sulle prospettive del declinante imperialismo statunitense.

Se il Partito Repubblicano, spostato sempre più a destra, continua a rappresentare in larghissima misura i sentimenti irriducibilmente guerrafondai dell’apparato militare e dell’intelligence, nonché del mondo degli affari che ruota attorno ad esso, buona parte di quello democratico predilige un atteggiamento parzialmente diverso.

Questa inclinazione risulta prevalente all’interno dell’amministrazione Obama e, pur non escludendo in nessun modo il ricorso all’aggressione militare, almeno per quanto riguarda l’Iran prevede per ora il tentativo di percorrere la strada della diplomazia come opzione più idonea alla difesa degli interessi americani.

In questo modo, e senza comunque escludere minacce o la reintroduzione delle sanzioni una volta revocate, permette teoricamente di evitare nel breve periodo il ripetersi delle conseguenze destabilizzanti provocate dalle disastrose avventure belliche promosse dagli Stati Uniti nell’ultimo decennio.

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