Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Michele Paris

La presenza dell’imprenditore miliardario Donald Trump tra le fila degli aspiranti repubblicani alla Casa Bianca e la sua rapida scalata negli indici di gradimento tra i potenziali elettori delle primarie, testimoniano dell’avanzato stato di degrado dell’intero sistema politico americano. Fino a poche settimane fa, quasi tutti i pretendenti alla nomination del Partito Repubblicano avevano deciso di ignorare l’ingombrante presenza di Trump, prevedendo che questo fenomeno si sarebbe sgonfiato da solo, come già avvenuto in passato.

Soprattutto il presunto favorito, Jeb Bush, scommetteva che gli eccessi di Trump avrebbero finito per beneficiare la sua candidatura, mostrando ai potenziali elettori quale sarebbe stata la scelta più ragionevole.

Al contrario, almeno per il momento, l’attenzione sempre maggiore dedicata dai media a Trump e la conseguente ascesa di quest’ultimo nei sondaggi hanno costretto i rivali repubblicani a prendere seriamente in considerazione la sua presenza e a pianificare attacchi diretti che hanno finito per contribuire alla legittimazione della sua candidatura e delle sue posizioni.

La prevedibile conseguenza della legittimazione di Trump e dell’impennata dei suoi indici di gradimento è stata così lo spostamento ancora più a destra del baricentro politico repubblicano, per quanto ardua potesse apparire una tale impresa alla luce dell’evoluzione di questo partito e di tutto il panorama politico USA nell’ultimo decennio.

Trump, ad ogni modo, ha deciso di puntare su una strategia volta a stimolare i sentimenti più retrogradi della base elettorale repubblicana che solitamente partecipa alle primarie. La questione dell’immigrazione clandestina e le paure generate nella popolazione dalla classe dirigente americana per la presunta “invasione” di stranieri senza documenti sono di gran lunga gli argomenti che dominano le apparizioni pubbliche del 69enne uomo d’affari.

Il livello del suo “progetto” politico e i toni che caratterizzano i suoi interventi erano subito emersi durante il lancio ufficiale della campagna elettorale, quando Trump aveva puntato il dito contro il governo messicano, accusato di esportare deliberatamente negli Stati Uniti soltanto “spacciatori e stupratori”.

Gli inaspettati consensi raccolti da Trump hanno così spinto gli altri candidati e l’establishment repubblicano a cercare un modo per mettere fuori gioco il rivale. Secondo alcuni media americani, ogni strategia messa in atto a questo scopo rischia però di trasformarsi in un boomerang. Gli attacchi rivolti a Trump provocano infatti reazioni che sembrano trasformarsi in un ulteriore aumento del gradimento tra una parte di elettori repubblicani disorientati e comunque infuriati con i vertici del partito.

Un'altra ipotesi dibattuta è quella di impedire a Trump di correre sotto le insegne repubblicane, ma una simile mossa potrebbe seriamente spaccare il partito e spingere il businessman a correre come indipendente per la Casa Bianca, favorendo il candidato del Partito Democratico.

Nel fine settimana, intanto, i tradizionali show televisivi americani di argomento politico hanno nuovamente avuto al centro della discussione la candidatura di Donald Trump, anche se quest’ultimo non è apparso su nessuno dei principali network.

A parlarne sono stati alcuni dei candidati rivali, come il governatore del Wisconsin, Scott Walker, e quello del New Jersey, Chris Christie, considerati i più penalizzati dall’ascesa di Trump nei sondaggi. Lo stesso Jeb Bush è tornato a far riferimento al tema dell’immigrazione, bollando come “irrealistico” il piano di Trump di deportare gli 11 milioni di irregolari che vivono negli Stati Uniti e “praticamente impossibile” quello di costruire un muro di protezione lungo tutto il confine con il Messico.

Le motivazioni di Bush non sono peraltro di natura morale, bensì solo pratica, a conferma che la sostanza delle posizioni di Trump non sono poi così estreme ma riflettono in larga misura il sentire comune in casa repubblicana. Il fratello dell’ex presidente ha infatti sostenuto che la costruzione di un muro anti-immigrati risulterebbe troppo costosa, mentre la maggioranza dei clandestini attualmente non arriva più dal Messico ma dagli altri paesi centro-americani.

Un’altra proposta di Trump sulla questione dell’immigrazione ha confermato poi il carattere profondamente reazionario della sua candidatura e, al tempo stesso, come le idee da lui avanzate siano condivise da molti nel Partito Repubblicano.

Trump ha cioè auspicato la privazione della cittadinanza americana per i nati in territorio USA da genitori irregolari. Lo “ius soli” è garantito esplicitamente negli Stati Uniti dal 14esimo Emendamento alla Costituzione, adottato nel 1868 dopo la Guerra Civile per garantire agli schiavi liberati e ai loro discendenti la cittadinanza americana e tutti i diritti che ne derivano.

Dopo questa nuova sparata sull’immigrazione da parte di Trump vari candidati alla nomination repubblicana si sono detti favorevoli all’abrogazione del 14esimo Emendamento. Altri hanno invece respinto l’ipotesi, come Jeb Bush, il quale, per non rimanere staccato nella corsa verso destra in atto tra la schiera di aspiranti alla Casa Bianca, è intervenuto più volte sull’immigrazione, ricorrendo tra l’altro a termini dispregiativi per definire i figli degli irregolari nati in America.

Attorno alla questione dello “ius soli” è comunque risultata sufficientemente chiara la profonda ignoranza di Donald Trump sulle più importanti questioni di politica interna e internazionale. Un’attitudine che, peraltro, non gli ha impedito di salire nei sondaggi e di intercettare l’attenzione dei media. In un’intervista rilasciata a Fox News, Trump ha sostenuto che l’interpretazione tradizionalmente data al 14esimo Emendamento potrebbe non reggere all’esame di un tribunale, apparentemente non sapendo che proprio lo “ius soli” era stato riconosciuto dalla stessa Corte Suprema già nel 1898 in relazione a questa aggiunta alla Costituzione americana risalente a 147 anni fa.

Il fenomeno Trump non è in ogni caso da sottovalutare per gli altri candidati repubblicani, nonostante l’assurdità di molte uscite. Di questo se né è avuta la riprova un paio di settimane fa, quando a un suo comizio organizzato in uno stadio di Mobile, in Alabama, hanno partecipato più di 20 mila persone, cioè una presenza decisamente maggiore rispetto a quelle fatte registrare finora dai suoi rivali.

Al di là della resistenza della candidatura di Trump e dei risultati che riuscirà a far segnare nelle primarie, la questione centrale sollevata dalla sua presenza tra i contendenti alla nomination e il relativo successo di queste settimane sembra essere il fatto che le sue posizioni e la sua demagogia abbiano incontrato un’accoglienza positiva almeno in una parte del Partito Repubblicano e delle élite USA che a esso fanno riferimento.

Razzismo, misoginia, esaltazione del militarismo e dell’accumulazione di ricchezze enormi sono il dato costante delle uscite pubbliche di Donald Trump e il loro abbraccio da parte di molti tra repubblicani, media e commentatori deve suonare come un avvertimento circa la predisposizione di parte della classe dirigente USA verso i principi democratici.

Ciò è risultato evidente in occasione del primo dibattito tra i candidati alla nomination repubblicana andato in scena ai primi di agosto, vero e proprio teatro in cui Trump ha potuto esibire il meglio - o il peggio - di sé stesso.

Uno spettacolo degradante, salutato dai media “mainstream” come un sano esercizio di democrazia, è stato altamente rivelatore non solo della natura del candidato Trump ma dello stato del sistema politico americano.

Una manciata di politici repubblicani ha potuto snocciolare le proprie proposte ultra-reazionarie di fronte a una folla attentamente selezionata e spesso in delirio per dichiarazioni che prospettano, tra l’altro, nuove sanguinose guerre, la distruzione di ciò che resta dello stato sociale negli USA e un ulteriore assalto ai diritti democratici.

In uno scenario segnato da una simile degenerazione politica, non è una sorpresa che a farla da padrone sia stato Donald Trump, le cui “proposte” non sono però in nessun modo eccezionali in ambito repubblicano, visto che a fare la differenza con gli altri candidati sono in gran parte solo i toni con cui vengono espresse piuttosto che i contenuti.

Il ruolo di Trump in queste fasi iniziali della campagna per le presidenziali del 2016, al di là delle sue effettive chances di successo, sembra essere così quello di mostrare nella maniera più cruda la vera faccia della classe politica e del capitalismo a stelle e strisce, totalmente incapaci di fornire soluzioni alla crisi in cui entrambi continuano a dibattersi disperatamente.

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