Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Michele Paris

A pochi giorni dall’abbattimento del caccia russo Su-24 da parte della Turchia, i contorni dell’episodio sembrano sempre più confermare i sospetti iniziali di una provocazione progettata a tavolino dal governo di Ankara nel disperato tentativo di fermare le operazioni militari di Mosca in Siria contro i terroristi che combattono il regime di Assad. La decisione presa ad altissimo livello dal governo turco ha riportato nel dibattito sulla crisi siriana tutte le ambiguità della politica estera promossa dal presidente Erdogan e i legami a dir poco sospetti della sua cerchia di potere con i gruppi fondamentalisti sunniti che operano a sud del confine, incluso lo stesso Stato Islamico (ISIS/Daesh).

I sospetti sui fatti di martedì sono stati ampiamente confermati non solo dalle dichiarazioni dei vertici politici e militari russi, ma anche dalla stessa contraddittoria versione fornita dalla Turchia. Il pilota russo sopravvissuto ha affermato che le autorità turche non avevano lanciato nessun avvertimento al velivolo prima dell’abbattimento. Ankara, da parte sua, giovedì ha diffuso dubbie registrazioni degli avvertimenti che sarebbero stati indirizzati ai due piloti russi. Nel materiale audio pubblicato dalla Associated Press non vi è inoltre traccia della risposta di questi ultimi.

Com’è stato ampiamente riportato dalla stampa occidentale “mainstream”, secondo i tracciati radar forniti da Ankara, se anche il jet russo avesse violato lo spazio aereo turco, sarebbe rimasto all’interno di esso per non più di 17 secondi, rendendo alquanto improbabile il fatto che la Turchia avesse potuto lanciare dieci avvertimenti ai piloti in cinque minuti. Anzi, ciò rivela semmai come siano stati gli F-16 turchi a violare lo spazio aereo siriano, nel quale hanno abbattuto il Su-24 russo, precipitato infatti ben all’interno del territorio della Siria.

Vista la situazione, appare chiaro che l’aereo da guerra russo non rappresentava alcuna minaccia alla sicurezza della Turchia. Nei casi poi di sconfinamenti che non indicano minacce, la pratica comune suggerisce iniziative ben diverse per risolvere un episodio di questo genere, a cominciare dall’invio di caccia del paese “invaso” per cercare di accompagnare al di fuori del proprio spazio aereo il velivolo “invasore”. Tanto più che, com’è stato fatto notare da Mosca, la Russia ha siglato un accordo con gli Stati Uniti per evitare incidenti durante le operazioni in Siria e tale accordo sembrava dover riguardare anche gli alleati di Washington che fanno parte della coalizione impegnata ufficialmente contro l’ISIS/Daesh.

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha inoltre ricordato come lo stesso Erdogan avesse affermato pubblicamente nel 2012 che una breve violazione dello spazio aereo di un altro paese non giustificava l’abbattimento di un velivolo militare. Queste parole erano state pronunciate dall’allora primo ministro turco dopo che il governo di Damasco aveva ordinato l’abbattimento di un caccia di Ankara accusato di avere sconfinato in Siria.

Se si considera come accertata la provocazione da parte della Turchia, risulta fondamentale chiedersi quali siano i motivi che hanno spinto Erdogan e il premier Davutoglu a prendere una decisione così grave, ma anche se il governo dell’AKP abbia agito o meno in accordo con gli Stati Uniti e gli altri paesi NATO.

Per quanto riguarda il primo aspetto ci sono sostanzialmente due questioni da valutare. La prima ha a che fare con la necessità da parte turca di difendere le formazioni “ribelli” fondamentaliste siriane dagli attacchi russi. Ankara ha investito parecchio nella galassia integralista attiva in Siria, senza troppi scrupoli nell’appoggiare gruppi come il Fronte al-Nusra - ovvero la filiale siriana di al-Qaeda - e lo stesso ISIS/Daesh. La Turchia continua infatti a rappresentare un centro logistico e un territorio di passaggio fondamentale per i guerriglieri, il denaro e le armi dirette verso la Siria.

Come ha fatto notare il presidente russo Putin alcuni giorni fa, questa dissennata politica della Turchia non solo risponde alle esigenze strategiche del governo di Ankara, che consistono principalmente nella rimozione del regime di Assad, ma permette a una schiera di funzionari, uomini d’affari e politici che ruotano più o meno attorno all’AKP di realizzare considerevoli profitti.

Una delle principali fonti di finanziamento dell’ISIS/Daesh è rappresentata dalla vendita clandestina di greggio estratto dai pozzi petroliferi in Siria sottratti al controllo di Damasco. Questo petrolio sembra finire in gran parte proprio in Turchia, dove viene acquistato a prezzi decisamente inferiori a quelli di mercato e garantisce un flusso di denaro continuo nelle casse degli uomini del “califfo” al-Baghdadi.

Addirittura, lo stesso figlio del presidente Erdogan, Bilal, è stato nei giorni scorsi indicato come uno dei beneficiari di questo traffico illegale di greggio dalle aree controllate dall’ISIS/Daesh verso la Turchia. Putin, d’altra parte, nel corso del recente vertice dei G-20 proprio in Turchia aveva rivelato in una conferenza stampa come “alcuni paesi membri di questo consesso siano tra i principali finanziatori dell’ISIS/Daesh”.

A evidenziare questi legami non è stato solo il governo russo, ma anche quello americano, ad esempio con il sotto-segretario di Stato, David Cohen, che lo scorso ottobre aveva quantificato in circa un milione di dollari al giorno i guadagni dell’ISIS/Daesh provenienti dalla vendita di petrolio, principalmente alla Turchia.

I recenti bombardementi della Russia contro convogli che trasportavano greggio proveniente dai pozzi controllati dall’ISIS/Daesh avrebbero quindi provocato un danno strategico ed economico tutt’altro che indifferente per la Turchia, spingendo il suo governo a mettere in atto una clamorosa ritorsione.

L’altra motivazione che avrebbe indotto Ankara a ordinare l’abbattimento del caccia russo è legata invece agli sviluppi diplomatici e militari emersi dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre. Se l’intervento russo in Siria ha già messo in crisi la strategia di Erdogan in questo paese, le prospettive per la Turchia sono ulteriormente peggiorate in seguito al progetto del presidente francese Hollande di costituire una coalizione anti-ISIS/Daesh che includa Mosca.

La provocazione contro la Russia di martedì sarebbe perciò un tentativo di ostacolare queste manovre in atto tra Mosca e Parigi, tant’è vero che uno dei temi che hanno trovato maggiore spazio sui media ufficiali subito dopo l’abbattimento del Su-24 è stato proprio il complicarsi dei piani di Hollande per mettere in piedi un più ampio ed efficace fronte contro i terroristi attivi in Siria.

Nei piani di Erdogan, agitare una presunta minaccia russa alla sicurezza nazionale turca avrebbe dovuto convincere la NATO a intralciare la riconciliazione franco-russa e, nella migliore delle ipotesi, trascinare la stessa Alleanza direttamente nel conflitto siriano per ottenere un ridimensionamento dell’impegno militare russo e la creazione di una sospirata “no-fly zone” nel nord della Siria.

La scommessa di Erdogan è stata ad ogni modo estremamente rischiosa, oltre che sconsiderata, visto che, pur segnando una pericolosa escalation del conflitto siriano con possibili serie conseguenze future, almeno per il momento la risposta della NATO non è andata al di là di una dichiarazione di circostanza che ha espresso solidarietà alla Turchia per la violazione dello spazio aereo da parte della Russia.

A livello non ufficiale, diplomatici di vari paesi NATO sembrano anche avere espresso maggiori apprensioni per l’atteggiamento turco, avallando di fatto la versione proposta da Mosca per i fatti di martedì.

Le manovre di Erdogan che hanno portato all’abbattimento del jet russo, come anticipato in precedenza, sollevano però un importante interrogativo circa l’eventuale complicità di Washington. I commentatori si sono divisi su questo punto, con alcuni che hanno considerato impossibile un’iniziativa del genere senza il via libera degli Stati Uniti. Se non altro, infatti, il mancato sostegno americano avrebbe lasciato la Turchia completamente esposta a una possibile devastante reazione militare russa.

Altri, al contrario, ritengono che la decisione di Ankara sia stata l’ennesimo esempio della natura impulsiva e imprevedibile di un Erdogan che continua ad assistere al clamoroso fallimento della propria politica siriana. In tal caso, quest’ultimo avrebbe voluto costringere Washington e la NATO ad agire al proprio fianco dopo avere presentato il fatto compiuto della presunta “aggressione” russa, seguita dall’abbattimento del Su-24.

Secondo questa interpretazione, la prova che l’amministrazione Obama e la NATO non fossero al corrente dell’abbattimento dell’aereo russo starebbe nella risposta cauta che ne è seguita. La freddezza occidentale dipenderebbe allora dal ruolo destabilizzante della Turchia in relazione alla Siria, dovuto in primo luogo al persistente appoggio garantito ai jihadisti, ma anche al timore delle conseguenze di un gesto simile, ossia un rafforzamento dell’impegno russo a favore del regime di Assad.

Infatti, le prime iniziative di Mosca dopo la provocazione turca sono state l’intensificazione dei bombardamenti contro i “ribelli” anti-Assad fondamentalisti - o “moderati”, secondo il giudizio dei governi in Occidente - e soprattutto l’annuncio del dispiegamento del sofisticato sistema di difesa missilistico S-400 nel nord della Siria.

Quest’ultima misura deve apparire particolarmente allarmante ad Ankara e in Occidente, visto che segnerebbe l’istituzione di fatto di una “no-fly zone” russa nelle stesse aree della Siria dove Erdogan - assieme agli ambienti “neo-con” americani - intendeva crearla, restringendo dunque le opzioni degli Stati Uniti e dei loro alleati per giungere al cambio di regime a Damasco.

Al di là del coordinamento o meno con Washington da parte di Ankara nell’abbattere il caccia russo, nonché delle tensioni crescenti tra gli alleati che vogliono disfarsi di Assad tramite le formazioni che compongono l’opposizione armata in Siria, gli obiettivi strategici di questi ultimi coincidono in larga misura e le differenze che stanno emergendo appaiono per lo più di natura tattica.

Gli Stati Uniti e la Turchia, in particolare, hanno mostrato di essere entrambi pronti a scatenare una guerra dalle conseguenze incalcolabili contro una potenza nucleare come la Russia pur di difendere i propri interessi sullo scacchiere mediorientale.

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