Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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Trump, intrigo a New York

di Mario Lombardo

Si è aperto questa settimana a New York il primo dei quattro processi in cui l’ex presidente repubblicano Donald Trump è coinvolto negli Stati Uniti. Il caso è quello collegato al pagamento alla vigilia delle elezioni del 2016 di una cifra superiore ai 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels (Stephanie Gregory Clifford) per ottenere il suo silenzio sulla relazione extraconiugale che avrebbe avuto con Trump. La vicenda legale è di importanza decisamente trascurabile. Sia il merito sia i tempi del processo sono stati calcolati per colpire politicamente l’ex inquilino della Casa Bianca durante una campagna elettorale che entrerà nel vivo nei prossimi mesi. Trump ha partecipato alla prima udienza in aula nella giornata di...
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di Fabrizio Casari

Le elezioni parlamentari in Venezuela hanno confermato quanto i sondaggi andavano indicando da tempo circa la crisi di consenso del governo Maduro. A guardare i numeri non lo si può negare, ma sarebbe sbagliato leggerli come se rappresentassero solo uno scontro interno. In realtà, in Venezuela lo scontro è stato tra il governo di Caracas e l’intera destra internazionale.

Il MUD, coalizione dai mille volti e nessuno dei quali accettabile, ha vinto ben oltre le sue specifiche capacità di attrarre consenso. Il dato dell’astensione, infatti, elemento tipico di un elettorato stanco e di un Paese in gravi difficoltà, ha castigato oltre ogni previsione l’operato del governo.

Nel menù della vittoria elettorale della destra venezuelana c’è di tutto. La campagna mediatica internazionale, la violenza, l’appoggio dei centri finanziari occidentali e l’aggressione diplomatica e politica statunitense che, solo pochi mesi orsono, facevano dire alla Casa Bianca che “Il Venezuela è una crescente minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Per l’America Latina, per la sua storia e per il discorso politico continentale, una tale affermazione non mai solo è una boutade propagandistica; comporta una serie di conseguenze gravide di pericoli sul piano del rapporto tra USA e singoli paesi del continente.

Il petrolio venezuelano fa gola, l’ha sempre fatta. Per toglierlo dalle mani del Paese e rimetterlo in quelle delle sette sorelle, la battaglia politica della destra venezuelana è stata combattuta, negli ultimi 16 mesi, in tutti i modi (soprattutto illegali) e su tutti i fronti (soprattutto all’estero). Non è passato giorno senza che il MUD non corresse ai quattro lati del pianeta a mobilitare la destra contro il governo di Caracas e gli appelli sono stati ricevuti e fatti propri. La veemenza di una destra che somiglia più ad un organizzazione criminogena che non ad un’alleanza politica, ha ricevuto tutto il sostegno internazionale che poteva ottenere.

Ciò non solo e non tanto per la disponibilità di un gruppo dirigente pronto ad ammainare il prima possibile la bandiera della sovranità nazionale e riportare così il Paese nelle mani dei suoi colonizzatori statunitensi, quanto perché in Venezuela si sono misurate le aspettative di una destra internazionale che, sulla sconfitta del chavismo, ha puntato tutte le fiches a disposizione.

Per questo, sin dalla morte di Hugo Chavez, i centri di potere finanziario e la destra internazionale hanno intravisto la possibilità di fermare la rivoluzione bolivariana, convinti che il retrocedere del processo rivoluzionario possa in qualche modo, nei suoi riflessi, comportare un generale indietreggiamento per l’integrazione latinoamericana. In questo senso la vittoria in Argentina di Macrì ha costituito un’importante ancoraggio per la spallata al Venezuela e per quella che si spera tocchi al Brasile.

Ma l’appoggio internazionale non è stato il solo elemento capace di ribaltare i rapporti di forza all’interno del Paese. Caos, violenze, assassinii politici, delegittimazione internazionale, boicottaggio economico, sabotaggi interni: questa è stata l’essenza della linea politica del MUD, pensata a Washington e Madrid e realizzata tra Miami e Caracas. Nulla di nuovo per l’America Latina: uno schema storicamente utilizzato dalla destra latinoamericana agli ordini della Casa Bianca che, dal Cile del 1973 ad oggi, ha sempre prodotto i suoi risultati.

Per questo il MUD, con la partecipazione attiva della borghesia speculatrice, non ha solo prodotto violenze ed instabilità politica, ma si è dedicato in forma diretta anche all’accaparramento economico dei beni di prima necessità, rivenduti al confine con la Colombia ad un prezzo decine di volte superiore a quello imposto dal governo.

Lo stoccaggio e l’imboscamento di merci di ogni genere, destinato a procurare la penuria crescente delle stesse nel mercato della distribuzione interna, ha raggiunto l’obiettivo sperato: il mancato funzionamento della catena distributiva, la conseguente stanchezza popolare nel procedere quotidiano delle attività, la crescita esorbitante del mercato nero e, dunque, dell’inflazione. Tutti elementi che hanno prodotto la consapevolezza indotta di un sistema di organizzazione sociale ed economica ormai non più in grado di garantire il suo ordinato svolgersi nella vita quotidiana di milioni di venezuelani.

Su questo singolo aspetto, decisivo per l’esito del voto, si è potuta misurare la sinergia tra operazioni politiche - quali l’accaparramento e il contrabbando di generi alimentari - e la campagna mediatica internazionale contro il governo Maduro.

Un parziale riscontro di questo lo si è potuto apprezzare nelle giaculatorie grondanti entusiasmo dei giornali italiani, La Repubblica in testa. Dove venivano descritte le code e l’assenza di prodotti ma, coerentemente con l’obiettività del quotidiano di Largo Fochetti, nemmeno un rigo veniva dedicato a spiegare come tutto questo era possibile, da dove traeva origine una simile situazione; men che mai veniva offerto spazio al punto di vista del governo.

Inutile, se non fuorviante, addossare la responsabilità della sconfitta elettorale alla presunta incapacità del governo di porre in essere politiche di maggior restringimento del commercio interno ed internazionale. Imputare al governo un cambio di direzione economica del Paese nel senso di un restringimento del libero mercato, così come di non aver dato vita ad una maggiore repressione nei confronti di una destra criminale, significa non comprendere i postulati generali del progetto politico bolivariano.

Certo, errori sono stati commessi e le contraddizioni di un gruppo dirigente non sempre all’altezza della sfida storica possono essere, con il senno di poi, sottolineate. Ma sarebbe un esercizio inutile prima che ingeneroso, anche in considerazione del fatto che il PSUV non dispone di quadri di livello superiore su cui investire ora per la rincorsa verso le presidenziali.

Si può anche ritenere che la prematura scomparsa di Hugo Chavez abbia indebolito inesorabilmente il progetto bolivariano, orfano di un carisma e di una leadership cui l’insieme del gruppo dirigente del PSUV non è riuscito a sopperire. Certo, la personalità del Comandante non era possibile ricrearla per decreto, ma forse la verità è molto più semplice. La sconfitta elettorale racconta la difficoltà di un progetto politico che vede nella redistribuzione dei proventi petroliferi il solo veicolo possibile per una politica economica inclusiva.

In questo senso la destinazione di una quota straordinaria del PIL allo stato sociale, che ha permesso al Venezuela di diventare paese tra i più equilibrati sul piano dell’accesso alle risorse da parte della popolazione, ha avuto un suo indiscutibile declino con la caduta verticale del prezzo del petrolio. Dal barile a oltre cento dollari a quello valutato proprio ieri dal Brent, a 38 dollari, vi sono 62 ragioni di una difficoltà crescente a finanziare le necessità di un paese.

Si può insomma ritenere che non si sia riuscito a creare un percorso alternativo nella generazione di ricchezza, ma non si può dimenticare la necessità di utilizzare ogni energia nel contrasto ad una povertà drammatica che, fino all’arrivo del Comandante Chavez a Miraflores, rendeva il Paese una autentica officina delle disegueglianze.

L’esito elettorale assegna così, dopo 17 anni, la maggioranza assoluta all’opposizione al governo centrale e l’assegnazione dei 22 seggi ancora vacanti stabilirà le percentuali esatte della rappresentanza parlamentare. Il dato ha una sua importanza, in un Paese dove la maggioranza qualificata può oggettivamente rendere difficilissimo governare. Per la destra le difficoltà cominciano ora, dal momento che dovrà dimostrare di possedere ricette alternative che non siano la pura cessione a titolo gratuito del Paese agli Stati Uniti.

E’ prevedibile che utilizzeranno gli strumenti costituzionali (referendum) e politici per accelerare l’uscita di Maduro da Miraflores. Ma è tutto da valutare, dal momento che spingere sull’acceleratore dello scontro frontale potrebbe rivelarsi un boomerang a seguito di un risultato comunque reso possibile grazie ad una astensione mai vista prima. Tra il cosiddetto “voto di castigo” e un cambio di regime c’è una enorme differenza nella percezione degli elettori. Il MUD non lo sa, ma i suoi assessori statunitensi ed europei sì.

Per il PSUV, la battaglia persa non significherà necessariamente aver perso la guerra. La riconquista dell’elettorato di riferimento che in questa occasione si è astenuto dovrà essere l’obiettivo per guardare alle prossime presidenziali. Difficile pensare che sia andato definitivamente perso quel sentimento nazionale che, in diciassette anni di democrazia socialista, è riuscito a trasformare un paese da simbolo della spaccatura sociale a sinonimo d’integrazione.

Se, nonostante la crisi e le difficoltà patite, uno zoccolo duro di circa la metà della nazione dimostra di voler comunque confermare una scelta irreversibile per una società più giusta, significa che non tutto ciò che è stato fatto è perso. Si tratta di rimboccarsi le maniche e andare oltre la ripetizione di formule ideologizzate e rigide, di ripensare una nuova strategia politica. Salvare e valorizzare la parte più moderna dell’eredità di Chavez e relazionarla con i mutamenti intervenuti, in Venezuela e nell’intero Cono Sud, è la sfida che attende il PSUV. Mai come in questo caso, ricominciare da capo non significa tornare indietro.

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