Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Ad alimentare le preoccupazioni occidentali per i riflessi che potrebbero avere sulla politica estera USA le possibili tendenze isolazioniste di Donald Trump, sono arrivati nel fine settimana i risultati del voto per le presidenziali in due paesi dell’Europea orientale - Bulgaria e Moldavia - considerati di importanza strategica fondamentale in chiave di contenimento della Russia di Putin. A Sofia e a Chisinau, sia pure senza sorprese, si installeranno infatti due presidenti considerati decisamente meglio disposti nei confronti di Mosca rispetto ai loro predecessori e ai governi attualmente in carica.

Se in molti sui media occidentali hanno caratterizzato le elezioni di Bulgaria e Moldavia come la conferma delle mire espansionistiche del Cremlino sugli ex satelliti sovietici, l’esito delle consultazioni di domenica è solo la logica conseguenza delle disastrose politiche economiche e di confronto con la Russia promosse da Washington e Bruxelles in questi ultimi anni.

In Bulgaria, il ballottaggio per la scelta del nuovo presidente ha confermato il risultato del primo turno, con il candidato appoggiato dal Partito Socialista di opposizione (BSP), Rumen Radev, in grado di ottenere il 59% dei consensi contro appena il 36% della sfidante, Tsetska Tsacheva, del partito di governo GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria).

Radev, presentatosi al voto come indipendente, è un ex pilota e comandante dell’aeronautica bulgara con precedenti di studio  negli Stati Uniti. In campagna elettorale aveva auspicato un approccio più moderato nei confronti della Russia, dicendosi favorevoli alla cancellazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea in seguito all’annessione della Crimea.

Allo stesso tempo, il neo-presidente bulgaro si era impegnato a mantenere il suo paese nella NATO e a non rompere i rapporti con i partner occidentali. Complessivamente, nel quadro dei poteri relativamente limitati della carica di presidente, l’obiettivo di Radev è quello di mantenere la Bulgaria in bilico tra Occidente e Russia, nel tentativo di ricavare i maggiori vantaggi possibili per il paese balcanico. Proprio facendo riferimento all’elezione di Trump alla Casa Bianca e alla promessa distensione con Mosca di quest’ultimo, il neo-presidente bulgaro ha detto domenica di confidare in un abbassamento dei toni tra Stati Uniti e Russia.

L’allineamento di Sofia all’Unione Europea sulla questione dei rapporti con Mosca è costato d’altra parte caro alla Bulgaria sia in termini economici, basti pensare alla cancellazione del progetto per la costruzione del gasdotto South Stream, sia di stabilità politica, considerando soprattutto che l’ingresso nell’UE e le iniziative adottate in conseguenza di ciò hanno determinato un peggioramento nelle condizioni di vita della maggior parte della popolazione.

I governi che si sono succeduti negli ultimi anni alla guida di questo paese hanno poi dovuto quasi sempre fare i conti con una serie di scandali che ne hanno scosso le fondamenta e accorciato la vita, così che lo scontro tra l’Occidente e la Russia, esploso dopo la crisi in Ucraina, ha costituito un ulteriore elemento di destabilizzazione e di divisione tra le diverse fazioni della classe dirigente bulgara.

Il riassetto strategico della Bulgaria promesso dal nuovo presidente era comunque in qualche modo già stato indicato dal governo di centro-destra del primo ministro, Boiko Borisov. Lo scorso mese di giugno, ad esempio, Sofia aveva bocciato la proposta del presidente rumeno, Klaus Iohannis, di creare una flotta permanente della NATO nel Mar Nero, ufficialmente per rispondere alla “aggressione” russa dell’Ucraina.

Come aveva promesso alla vigilia del voto, in ogni caso, il premier Borisov lunedì ha annunciato le proprie dimissioni con una mossa che apre con ogni probabilità la strada a elezioni anticipate di qui a pochi mesi. I leader Socialisti hanno infatti escluso di volere tentare di mettere assieme un nuovo esecutivo. Quello che verrà indetto dal prossimo presidente sarà così il terzo voto in cinque anni prima della scadenza naturale del mandato del Parlamento bulgaro.

L’elezione di Rumen Radev e le dimissioni del governo non prospettano però una soluzione immediata della crisi politica della Bulgaria. Mentre il gabinetto uscente non ha fatto nulla per limitare la corruzione e la povertà dilagante, il Partito Socialista continua a essere gravemente screditato agli occhi degli elettori. Fino alle elezioni del 2014, nelle quali ha incassato una clamorosa sconfitta, il DPS appoggiava un governo di minoranza che fu costretto a dimettersi sull’onda di proteste popolari provocate, tra l’altro, da casi di corruzione e da una crisi bancaria dai contorni oscuri.

In precedenza, peraltro, il governo di centro-destra guidato ancora da Borisov nel 2013 si era a sua volta dimesso in seguito a manifestazioni di piazza seguite a rincari vertiginosi delle tariffe dell’energia elettrica che erano andati a sommarsi a durissime misure di austerity implementate dallo stesso esecutivo.

Radev assumerà il suo incarico di presidente il prossimo 22 gennaio e, fino ad allora, sarà con ogni probabilità un governo tecnico di transizione a guidare la Bulgaria. Secondo le previsioni, il neo-presidente procederà allora con lo scioglimento anticipato del Parlamento e il voto dovrà tenersi almeno 60 giorni più tardi. Nella campagna elettorale che si prospetta è più che probabile che a tenere banco sarà soprattutto la questione dei rapporti con la Russia e i paesi occidentali.

Anche se apparentemente di importanza minore rispetto alla Bulgaria, più di un grattacapo a Bruxelles e Washington deve avere causato domenica anche l’elezione al secondo turno nella piccola Moldavia di un nuovo presidente intenzionato a ristabilire i legami politici ed economici che legano tradizionalmente il suo paese a Mosca.

Anche qui, il quadro politico interno è stato caratterizzato nell’ultimo periodo da una grave instabilità a causa di scandali vari e, più in generale, dalla sovrapposizione ad essi dello scontro strategico tra Russia e Occidente.

Il nuovo presidente sarà il 41enne Igor Dodon, leader del Partito Socialista e della fazione politica che rappresenta le élites moldave che beneficiano dei rapporti con la Russia. Secondo i sondaggi, Dodon avrebbe dovuto essere superato al primo turno dalla sua principale sfidante, Maria Sandu, del Partito Liberal Democratico (PLDM) filo-occidentale, per poi imporsi in maniera relativamente agevole al secondo turno.

Nonostante il ritiro alla vigilia del voto di un altro aspirante alla presidenza gradito all’Occidente, Marian Lupu del Partito Democratico (PDM), la Sandu era invece finita da subito dietro a Dodon, mentre nel ballottaggio di domenica quest’ultimo ha prevalso nuovamente con il 52% dei voti espressi.

Ancor più rispetto al presidente appena eletto in Bulgaria, il nuovo leader moldavo aveva impostato la propria corsa sul ristabilimento dei legami con la Russia. Dodon aveva promesso di abrogare l’accordo commerciale siglato dalla Moldavia con l’Unione Europea nel 2014 per aderire all’Unione Economica Eurasiatica, promossa dalla Russia e di cui fanno parte anche Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan. L’avvicinamento all’Europa aveva provocato la dura reazione di Mosca, da dove erano state prese misure per colpire l’economia moldava, prima fra tutte lo stop alle esportazioni di prodotti alimentari verso la Russia.

Igor Dodon ha definito un grave errore la sottoscrizione dell’accordo con Bruxelles, cavalcando di fatto uno scetticismo diffuso per l’UE tra la popolazione moldava. In molti identificano infatti la classe politica europeista con gli innumerevoli episodi di corruzione emersi in questi anni, a cominciare dalla clamorosa sparizione di un miliardo di euro - pari a circa un ottavo del PIL del paese - dalla banca centrale e finito su conti esteri.

Lo scandalo aveva costretto alle dimissioni il primo ministro, Valeriu Strelet, e il governo a chiedere aiuti finanziari internazionali per evitare il tracollo del paese. La vicenda aveva innescato massicce proteste popolari, culminate tra l’altro nella reintroduzione dell’elezione diretta del presidente, decisa anche per sbloccare la paralisi politica.

Dodon ha fatto sapere lunedì che il suo primo viaggio all’estero da presidente sarà proprio a Mosca e, nel caso dovesse confermare gli orientamenti mostrati in campagna elettorale, provocherà serie preoccupazioni a Bruxelles, dal momento che i vertici europei cercano da tempo di attrarre la Moldavia nella propria orbita in funzione anti-russa, vista la posizione strategica che occupa tra l’Ucraina e la Romania.

Sviluppi favorevoli a Mosca potrebbero verificarsi infine anche nella regione autonoma della Transnistria, dove sono presenti circa duemila soldati russi a difesa del governo indipendentista.

L’Occidente aveva soffiato sul fuoco del nazionalismo a Chisinau per provocare la cacciata del contingente militare russo. Il neo-presidente Dodon, invece, subito dopo la sua elezione ha escluso iniziative di questo genere in relazione allo status della Transnistria, mostrando piuttosto l’intenzione di volerne ratificare l’autonomia, di fatto sotto la protezione del Cremlino.

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