Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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Trump, intrigo a New York

di Mario Lombardo

Si è aperto questa settimana a New York il primo dei quattro processi in cui l’ex presidente repubblicano Donald Trump è coinvolto negli Stati Uniti. Il caso è quello collegato al pagamento alla vigilia delle elezioni del 2016 di una cifra superiore ai 130 mila dollari alla pornostar Stormy Daniels (Stephanie Gregory Clifford) per ottenere il suo silenzio sulla relazione extraconiugale che avrebbe avuto con Trump. La vicenda legale è di importanza decisamente trascurabile. Sia il merito sia i tempi del processo sono stati calcolati per colpire politicamente l’ex inquilino della Casa Bianca durante una campagna elettorale che entrerà nel vivo nei prossimi mesi. Trump ha partecipato alla prima udienza in aula nella giornata di...
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di Michele Paris

Nell’arco di poche ore, questa settimana l’amministrazione Trump ha preso due provvedimenti diametralmente opposti in merito all’Iran che mostrano tutte le contraddizioni del governo americano sull’approccio da tenere nei confronti di questo paese e dell’intera regione mediorientale.

Lunedì, la Casa Bianca aveva dovuto certificare nuovamente il rispetto dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA) da parte di Teheran. La decisione sarebbe stata presa in maniera riluttante dal presidente USA, il quale fin dalla campagna elettorale dello scorso anno si era impegnato a uscire dall’accordo di Vienna.

Secondo le ricostruzioni fatte dalla stampa americana, Trump avrebbe cercato di passare da subito alla linea dura, ma alcuni esponenti di spicco della sua amministrazione – dal segretario di Stato, Rex Tillerson, a quello alla Difesa, James Mattis, dal consigliere per la sicurezza nazionale, H. R. McMaster, al capo di Stato Maggiore, Joseph Dunford – lo hanno convinto a confermare almeno momentaneamente la validità dell’accordo.

Con la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni Unite che continua a garantire il comportamento conforme all’accordo dell’Iran e gli altri cinque paesi coinvolti nelle trattative (Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) intenzionati a proseguire sulla strada della distensione, alla fine Trump non ha potuto che adeguarsi.

Il Congresso americano stabilisce che la Casa Bianca debba notificare ogni 90 giorni la conformità dell’Iran alle condizioni del JCPOA. Quella di questa settimana è la seconda certificazione fatta da Trump e anche la prima volta la sua decisione in senso positivo era arrivata con una serie di recriminazioni e riserve.

Che la Casa Bianca abbia agito in questo senso solo perché costretta dalle circostanze è apparso chiaro quando, martedì, il dipartimento di Stato, assieme a quelli di Giustizia e del Tesoro, ha annunciato nuove sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica.

L’azione è tecnicamente svincolata dall’accordo sul nucleare ma, come risulta evidente, nelle intenzioni dell’amministrazione Trump serve a incrinare ancora di più le relazioni bilaterali e a preparare il terreno per un’accelerazione dell’offensiva contro Teheran.

Le nuove misure punitive colpiscono 18 tra “entità” e individui iraniani che Washington ritiene coinvolti in attività quali lo sviluppo del programma missilistico, l’acquisto di armi e il furto di software. Non solo, a essere colpite dalle sanzioni sono anche una compagnia turca e una cinese che il Tesoro americano sostiene abbiano fornito materiale alle forze armate iraniane.

In realtà, tutte le attività considerate illegali dagli USA appaiono interamente legittime. La vera ragione della persistente ostilità americana nei confronti dell’Iran si può leggere tra le righe del comunicato ufficiale che ha accompagnato le sanzioni. Per il governo americano, cioè, le misure scaturiscono dalle “gravi preoccupazioni che suscitano le attività maligne della Repubblica Islamica in Medio Oriente” che “minacciano la stabilità, la sicurezza e la prosperità della regione”.

Al di là del fatto che questa descrizione si adatta alla perfezione alle attività destabilizzanti proprio degli Stati Uniti nel vicino Oriente, essa spiega chiaramente le ragioni dell’ostilità di Washington verso l’Iran. Nonostante l’accordo sul nucleare, Teheran continua in sostanza a rappresentare il principale ostacolo agli interessi degli USA e dei loro alleati in Medio Oriente.

Il riferimento dello stesso Trump alla violazione da parte iraniana dello “spirito”, se non della lettera, del JCPOA rivela come una parte della classe dirigente americana, quella contraria fin dall’inizio al negoziato con Teheran, abbia accettato a denti stretti l’intesa sul nucleare a condizione di utilizzarla come strumento di pressione per far desistere la Repubblica Islamica dalle proprie ambizioni da potenza regionale.

Il problema per Washington è che l’accordo ha innescato un processo di integrazione economica, sia pure alle primissime battute, dell’Iran con molti alleati degli Stati Uniti, per non parlare del consolidamento dei legami che già manteneva con paesi come Russia, Cina, India o Turchia.

Soprattutto l’Europa appare sempre meno disposta a rivedere i termini del JCPOA, visto che numerose aziende di svariati paesi stanno già facendo a gara per entrare nel mercato iraniano, da cui invece quelle americane restano in larga misura escluse. Proprio alcuni giorni fa, ad esempio, il colosso francese dell’energia Total ha sottoscritto un accordo da quasi 5 miliardi di dollari con la cinese CNP e l’iraniana Petropars per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale South Pars.

Se l’amministrazione Trump, con il sostegno pressoché unanime del Congresso, intenderà proseguire sulla strada del confronto con Teheran, risulta evidente che quello che si prospetta è l’apertura a tutti gli effetti di un nuovo fronte nello scontro tra alleati in Occidente. Negli ultimi mesi sono state d’altronde sempre più numerose le voci dei leader europei che hanno celebrato l’accordo con l’Iran e condannato apertamente le posizioni americane.

Lo stesso governo della Repubblica Islamica ha fatto i propri calcoli in considerazione dei mutati equilibri internazionali, tanto che questa settimana il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, non ha avuto scrupoli a criticare l’amministrazione Trump, oltretutto nel corso di una visita negli Stati Uniti.

Zarif ha affrontato in varie occasioni la questione delle sanzioni e del JCPOA durante discorsi tenuti presso istituti e “think tank” americani o nel corso di interviste ai media d’oltreoceano, rimandando le accuse al mittente e giungendo egli stesso a minacciare una comunque improbabile uscita di Teheran dall’accordo.

La partita del nucleare iraniano non è ad ogni modo una questione isolata, ma si inserisce nel quadro più generale del sovrapporsi degli interessi di Washington e Teheran in Medio Oriente. La sorte del JCPOA, anche se non dipende unicamente dagli Stati Uniti, sarà infatti da collegare alle prossime mosse dell’amministrazione Trump nella regione.

Lo scontro tra gli USA e i loro alleati contro l’Iran e l’asse sciita, dal quale derivano in sostanza le tensioni sulla vicenda del nucleare di Teheran, continuerà così a giocarsi su tutti gli scenari più caldi, dalla guerra in Siria a quella nello Yemen, dalla sfida per garantirsi l’influenza sull’Iraq alla crisi che sta lacerando il gruppo delle monarchie sunnite del Golfo Persico.

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