Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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La decisione ha seguito l’assunzione diretta nelle mani dell’esecutivo del primo ministro conservatore, Mariano Rajoy, del governo della Catalogna in seguito all’approvazione venerdì scorso al Senato di Madrid dell’articolo 155 della Costituzione spagnola. In precedenza, il parlamento regionale di Barcellona aveva approvato una dichiarazione unilaterale di indipendenza, seguita poi dall’invito alla popolazione del deposto presidente catalano, Carles Puigdemont, a resistere “democraticamente” alla “repressione” e alle “minacce” di Madrid.

Lo stesso Puigdemont aveva fatto perdere le proprie tracce in previsione di un possibile arresto e lunedì è circolata la notizia della sua presenza a Bruxelles, dove potrebbe chiedere asilo al governo belga. Puigdemont e i membri della sua ormai ex amministrazione regionale potrebbero essere accusati formalmente di ribellione, sedizione e appropriazione indebita di fondi pubblici. Queste accuse prevedono complessivamente una pena massima di oltre 50 anni. Sulla richiesta di incriminazione del procuratore generale, José Manuel Maza, dovrà ora esprimersi un giudice spagnolo.

L’azione intrapresa contro i vertici politici catalani rende ancora più cinica e artificiosa la pretesa del governo Rajoy di volere risolvere in maniera pacifica e democratica la crisi in atto attraverso elezioni anticipate nella regione autonoma. L’implementazione dell’articolo 155 era stata infatti accompagnata dallo scioglimento del parlamento regionale, con il voto fissato per il 21 dicembre prossimo.

Le elezioni, oltre a tenersi sotto il controllo di Madrid e la mobilitazione delle forze di polizia e dell’esercito, potrebbero avvenire con alcuni dei leader dei partiti indipendentisti in carcere. D’altra parte, da settimane sono già agli arresti i leader delle associazioni politico-culturali Omnium Cultural e Assemblea Nazionale Catalana, Jordi Cuixart e Jordi Sanchez.

Il disprezzo per la democrazia del governo Rajoy è stato confermato dalle dichiarazioni di alcuni suoi membri, tra cui il ministro degli Esteri Alfonso Dastis, sulla sorte di Puigdemont, la cui candidatura alle elezioni di dicembre è stata definita possibile, sempre però che per quella data il deposto presidente catalano non sia dietro le sbarre.

Gli eventi drammatici del fine settimana avevano anche aumentato le aspettative in vista della riapertura degli uffici pubblici per verificare l’atteggiamento di politici e dipendenti del governo regionale di fronte alle misure repressive ordinate da Madrid. Le notizie provenienti lunedì dalla Catalogna hanno raccontato di una situazione relativamente normale, anche se la crisi politica e istituzionale potrebbe essere ben lontana dall’essere risolta.

A limitare le manifestazioni di protesta sono in primo luogo la minaccia di licenziamento che pesa su circa 200 mila dipendenti pubblici catalani, nel caso dovessero opporsi agli ordini del governo Rajoy. Inoltre, Madrid ha proceduto con la sostituzione dei vertici della polizia regionale (Mossos d’Esquadra), di fatto schierata fino ad ora in appoggio delle forze indipendentiste.

Che il voto del 21 dicembre prossimo sia un esercizio tutt’altro democratico è dimostrato anche dal fatto che un eventuale risultato favorevole alle forze indipendentiste si scontrerebbe con la determinazione del governo centrale spagnolo a fermare il riemergere di qualsiasi spinta alla secessione della Catalogna. Vista la situazione, è evidente che l’unico risultato che Madrid intenderà accettare sarà la formazione di una maggioranza a livello regionale disposta ad assecondare il governo centrale spagnolo.

La decisione di imporre elezioni anticipate ha ad ogni modo già accentuato le divisioni e moltiplicato le ansie nei partiti favorevoli all’indipendenza. Dal Partito Democratico Europeo Catalano (PDeCAT) di Puigdemont, alla Sinistra Repubblicana (ERC) del vice-presidente Oriol Junqueras, alla Candidatura di Unità Popolare (CUP), le principali formazioni politiche regionali hanno evitato di denunciare il voto o di annunciare un eventuale boicottaggio.

Il loro calcolo è con ogni probabilità quello di capitalizzare l’ostilità nei confronti della repressione di Madrid e i procedimenti giudiziari di natura politica messi in moto contro i leader catalani per ottenere una nuova maggioranza nel prossimo parlamento regionale.

Non solo, vista la sostanziale incapacità di queste forze di mobilitare ampie fasce della popolazione catalana sulla base di una battaglia autenticamente democratica contro un governo centrale del quale ne condividono in larga misura gli orientamenti economici e di classe, confinare la lotta indipendentista al di fuori del quadro parlamentare rappresenterebbe quasi certamente un colpo letale per le loro ambizioni.

Al di là degli appelli a resistere il pugno di ferro del governo Rajoy, i leader indipendentisti catalani hanno puntato le loro carte soprattutto sull’appoggio delle istituzioni e dei governi europei, essi stessi irrimediabilmente screditati agli occhi di centinaia di milioni di persone in tutto il continente. Con la disponibilità di questi ultimi a sostenere le aspirazioni della Catalogna mai materializzatasi, Puigdemont e i suoi partner di governo regionale si sono trovati in sostanza disarmati a contrastare in modo efficace i metodi apertamente franchisti messi in atto da Madrid.

I fatti registrati in Catalogna prima e dopo il referendum per l’indipendenza del primo ottobre scorso sono comunque da inserire in un quadro più ampio della creazione di una nuova entità statale nella penisola iberica e dei tentativi di impedire un’evoluzione in questo senso.

Gli esempi pacifici, tra gli altri, di Scozia o Quebec rendono insostenibili le tesi di coloro che – a Madrid come a Bruxelles – hanno giustificato il comportamento di Rajoy come l’unico possibile per fermare la deriva secessionista e per ristabilire la legalità costituzionale in Spagna. Il governo centrale, poi, aveva respinto le aperture dei leader catalani ad avviare un negoziato dopo che questi ultimi avevano congelato la dichiarazione di indipendenza in seguito al referendum.

Il ricorso a metodi violenti e a misure legali profondamente reazionarie a quarant’anni dalla fine del franchismo è da inquadrare in realtà in un processo, comune a tutto l’Occidente e in atto almeno dall’esplosione della crisi economica e finanziaria globale del 2008-2009, di rapido logoramento delle forme di governo democratiche che si credevano ormai consolidate.

Le scene raccapriccianti osservate nella giornata dedicata al referendum catalano un mese fa hanno sbalordito l’opinione pubblica di tutto il mondo, risultando all’apparenza decisamente sproporzionate rispetto alla minaccia effettiva. La reazione di Madrid, con il pieno sostegno delle “democrazie” europee e degli Stati Uniti, ha rivelato perciò lo stato d’animo di una classe dirigente terrorizzata da qualsiasi spinta popolare in grado di destabilizzare, anche solo potenzialmente, un sistema sempre più debole e screditato da quasi un decennio di feroci politiche di austerity.

L’altra faccia della medaglia della strategia del governo Rajoy è il tentativo di promuovere in funzione anti-secessionista tendenze nazionaliste spagnole ultra-reazionarie, le quali trovano appunto terreno fertile nel ricorso a metodi degni della dittatura franchista.

La manifestazione di domenica scorsa a Barcellona per l’unità della Spagna, a cui hanno partecipato circa 300 mila persone, ha confermato almeno in parte l’emergere di queste tendenze. Questo evento, così come un altro simile organizzato in precedenza, ha visto innegabilmente numerosi partecipanti, incluse sezioni della “working-class” catalana, favorevoli all’unità del paese in un quadro politico democratico.

Tuttavia, altrettanto evidente è stata la presenza di forze di estrema destra, protagoniste di slogan inneggianti al franchismo e di attacchi deliberati e talvolta violenti a persone o simboli collegati all’indipendentismo catalano. Precisamente su queste forze e sui grandi interessi economici indigeni e internazionali si basa la campagna anti-secessionista di Rajoy e del suo esecutivo, intenzionato a imporre forme di governo autoritarie che dalla Catalogna potrebbero essere facilmente replicabili nel resto di una Spagna tuttora attraversata da gravissime tensioni sociali.

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