“Tutti voi qui presenti oggi siete stati iscritti nella storia della lotta palestinese. Ci siamo riuniti a Detroit, alla Conferenza Popolare per la Palestina, con oltre 3.500 persone provenienti da tutto il Nord America e decine di migliaia di persone online. Abbiamo reso chiaro il nostro messaggio: noi, il movimento per la Palestina in Nord America e in tutto il mondo, siamo qui per lottare fino alla vittoria.”

 

Questa la dichiarazione finale con cui gli organizzatori sottolineano la portata storica e politica della Conferenza Popolare per la Palestina svoltasi a Detroit tra il 24 e il 26 maggio. La conferenza, organizzata dal PYM (Palestinian Youth Movement) con la collaborazione delle più grandi realtà associative per la Palestina negli USA, si è data l’ambizioso obiettivo di individuare le forme di organizzazione popolare, intergenerazionale e intersettoriale del movimento palestinese nella diaspora occidentale, definendone così il ruolo nel cuore dell’impero.

“Questa conferenza è stata convocata durante sia il genocidio che la rivoluzione, perché è nostro dovere far crescere questo movimento, come un braccio tra i tanti nella continua lotta di liberazione nazionale per la Palestina”, si legge ancora nella dichiarazione finale, insistendo su una lettura non apologetica della resistenza anticoloniale palestinese, sottolineando quindi come il processo di liberazione, e il contributo di tutti i settori della società palestinese, non siano concetti astratti, ma prassi che vanno costruite collettivamente.

Migliaia di kefieh colorano il grande centro congressi nel cuore di Detroit, i giovani giunti da tutto il mondo sono animati dalla stessa convinzione: che questa sia una svolta epocale nella storia della diaspora palestinese. Le nuove generazioni, per la prima volta nel periodo post-Oslo, rivendicano il proprio ruolo nella lotta di liberazione, e lo fanno con la certezza che la fase politica che stanno inaugurando segni una rottura definitiva con le dinamiche precedenti e con le narrative liberali mainstream sulla causa palestinese. “Solo pochi anni fa, non avremmo sognato di vedere tante bandiere, tante kefieh sventolare ovunque, qui, nel cuore dell’imperialismo occidentale. Questa generazione sta cambiando la storia”, commenta una leader storica del movimento di solidarietà palestinese mentre ascolta i giovani spiegare il significato strategico delle proteste studentesche. È una conferenza intergenerazionale in cui l’analisi della storia politica del movimento e la valutazione delle trasformazioni in corso servono a delineare traiettorie concrete di azione politica per il futuro: decolonizzazione intesa finalmente come metodologia e non solo come ideologia.

Il programma della conferenza rispecchia questa volontà: dalle sessioni plenarie e le decine di workshop emerge una disamina completa delle strategie organizzative emerse a livello globale contro il genocidio e le pratiche di pulizia etnica perpetrate da Israele a Gaza negli ultimi mesi, collegando la brutalità coloniale al sistema di sfruttamento e disuguaglianza economica che domina in Occidente. Per molti dei presenti, è stato proprio il legame tra politiche domestiche ed internazionali a motivare la mobilitazione. Un membro di Put People First PA (Pennsylvania), associazione che si occupa di colmare le lacune del sistema sanitario statunitense, sottolinea: “Non abbiamo infrastrutture sanitarie a Philadelphia, ma bombardano gli ospedali di Gaza con i soldi degli americani”. È una presa di coscienza che è maturata tra le comunità e i settori più sfruttati e marginalizzati della società occidentale: la causa palestinese torna ad essere l’emblema della lotta anti-capitalista.

E intento dei tanti partecipanti è quello di organizzare il movimento globale per renderlo più efficace, in grado di affrontare il sistema ideologico che legittima il sionismo come progetto coloniale e di smascherare la complicità di un sistema internazionale ancora sbilanciato e oppressivo.

Numerosi sono gli interventi che insistono sulla necessità della “lotta congiunta” tra popoli oppressi: tra i relatori, Dominico Vega rappresentante del Movimento Filippino per la Democrazia Nazionale sottolinea il nesso tra il colonialismo sionista e il neocolonialismo americano che ancora domina nelle Filippine. Fanno da eco a questa analisi le parole dei tanti arrivati da Porto Rico, Haiti, dal Sud America a ribadire il sostegno alla Palestina come parte della loro lunga storia anti-imperialista. Il colonialismo sionista viene riconosciuto come forma di dominio strutturale, pilastro fondante del sistema internazionale con radici storiche profonde, e mai superato: le testimonianze dei tantissimi rappresentanti di popoli indigeni , dai Maori arrivati dalla Nuova Zelanda, alle numerose tribù native americane, indicano che la lotta palestinese apre nuove opportunità per le cause di tutti i popoli indigeni colonizzati nel corso dei secoli. E questa analisi che smaschera la natura sistemica dell’oppressione israeliana viene denunciata con voce forte nella sessione “Sionismo ed imperialismo americano” da Sara Kershnar, rappresentante del Network Internazionale degli Ebrei Anti-Sionisti: “Siamo al fianco della lotta palestinese per la liberazione dal fiume al mare”, dichiara, “non esiste movimento più antisemita di quello sionista”, conclude.

Ed è la resistenza a questo progetto imperialista nelle sue espressioni più articolate che deve animare il movimento in diaspora: da qui, l’appello finale della conferenza ad una campagna di boicottaggio transnazionale contro la compagnia di logistica Maersk che ha trasportato oltre il 90% delle armi americane per le guerre in Iraq e Afghanistan e prosegue l’opera col genocidio in corso a Gaza. “Colpiremo l’impero dove fa più male”, commentano i giovani.

È questa la nuova aria che si respira a Detroit e non solo: un vento fresco che spazza via la retorica bipartisan, che rigetta il linguaggio liberale di legittimazione delle dinamiche di oppressione globale. E ribadisce che la causa palestinese rimane la bussola del movimento internazionalista; che la resistenza palestinese apre un nuova fase rivoluzionaria che mobilita tutti i settori sociali, non solo tra i palestinesi, ma tra tutti i popoli oppressi.

Sono gli studenti, indubbi protagonisti di questa fase politica e componente centrale della conferenza, a sottolineare l’inter-settorialità delle mobilitazioni ed ad insistere sulla necessità di continuare ad articolare una pedagogia rivoluzionaria che diventi prassi organizzativa tra le comunità. Rivendicando il ruolo di avanguardia che ha storicamente caratterizzato il movimento studentesco, i giovani spiegano che la mobilitazione non può fermarsi alle università ma deve espandersi ed includere tutti i settori e fasce sociali. Sottolineano come le esperienze di questi mesi, negli USA, come in Inghilterra, in Palestina, e in Italia, ambiscano proprio alla mobilitazione delle masse.

È l’esperienza italiana, testimoniata da Dawood al-Taamari, rappresentante dei Giovani Palestinesi d’Italia, arrivato da Bologna, a confermare la valenza di questa strategia: la mobilitazione studentesca a Bologna ha potuto contare sul sostegno fondamentale dei lavoratori e delle pratiche di dissenso che hanno costruito sul territorio, collettivamente, nel corso di questi mesi. Mentre all’università si otteneva  la sospensione del partenariato tra il dipartimento di Filologia Classica ed Italianistica e la Hebrew University, i lavoratori della Dachser-Fercam s.p.a., società di logistica e trasporto merci, riuscivano ad imporre nel loro contratto lavorativo l’esenzione dallo spostamento di merci provenienti da, o destinate ad Israele.

Nella condivisione e riflessione su pratiche di protesta e azione politica quotidiane si manifesta la portata rivoluzionaria della lucidità di analisi e visione, così come di strategie e prassi, che la nuova generazione ha saputo articolare in questi mesi e su cui la conferenza investe, per inaugurare una fase organizzativa più consapevole.

Voci illustri intervenute alla conferenza hanno fatto da cassa di risonanza a questa visione. Mustafa Barghouti, leader del partito El Mubadara, ha insistito sull’unità del popolo palestinese nella resistenza all’oppressione. Rashida Tleib, la prima congresswoman palestinese negli USA, ha denunciato la collusione americana nel genocidio e nella colonizzazione sionista della Palestina. E infine, Sana al-Daqqa, moglie del prigioniero politico Walid al-Daqqa deceduto nelle carceri israeliane, ha ricordato come la resistenza sia essa stessa libertà: la dignità e la resilienza del popolo palestinese, radicate nel legame con la propria terra e nella giustezza della propria causa, rimangono, nonostante tutto, invincibili, e ci avvicinano ogni giorno di più al sogno collettivo di liberazione e ritorno.

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