Proprio mentre il presidente Trump definiva questa settimana l’Unione Europa un “nemico” degli Stati Uniti sul fronte economico e commerciale, il dipartimento di Stato e del Tesoro americani respingevano in maniera ufficiale le richieste di Francia, Germania e Gran Bretagna di sospendere il ripristino delle sanzioni contro l’Iran, provocato dall’uscita unilaterale di Washington dall’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA) lo scorso mese di maggio.

 

La replica americana si riferisce a una lettera che i paesi europei coinvolti nelle trattative diplomatiche con Teheran avevano inviato all’amministrazione Trump il 7 di giugno per provare a ottenere l’esenzione dalle misure punitive relativamente alle attività di business condotte in Iran dalle aziende francesi, britanniche e tedesche in alcuni settori, tra cui quello finanziario, energetico e medicale.

 

La supplica europea era il riconoscimento di fatto dell’autorità americana di imporre a piacimento politiche favorevoli ai propri interessi. Nessun effetto aveva avuto anche il quasi-patetico appello rivolto al governo USA ad astenersi dall’adottare misure che avrebbero danneggiato paesi alleati.

 

L’intenzione dichiarata della Casa Bianca è quella di applicare, con metodi mafiosi, “pressioni finanziarie senza precedenti” nei confronti dell’Iran e di ridurre a zero l’export petrolifero di questo paese. Una prima tranche di sanzioni sospese dal JCPOA nel 2015 rientreranno in vigore a inizio agosto ed esse riguarderanno il commercio di automobili e minerali, tra cui l’oro. Il secondo e più pesante pacchetto, quello relativo al petrolio e alle transazioni finanziarie, tornerà invece a farsi sentire per la Repubblica Islamica a partire dal 4 novembre prossimo.

 

Nella lettera indirizzata ai paesi europei questa settimana, il segretario di Stato, Mike Pompeo, e quello al Tesoro, Steven Mnuchin, hanno spiegato che il governo americano “non è in grado di fare alcuna eccezione [alle sanzioni]” tranne i casi in cui ciò sia richiesto dalla “nostra sicurezza nazionale”. La ragione di questa fermezza, hanno ricordato Pompeo e Mnuchin apparentemente senza ironia, è che il JCPOA “ha fallito nel garantire la sicurezza del popolo americano”.

 

L’accordo di Vienna era stato sottoscritto, oltre che dall’Iran e dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Obama, da Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Cina. A parte gli USA, tutti i paesi e le Nazioni Unite hanno sempre certificato il pieno rispetto dei termini dell’intesa da parte della Repubblica Islamica.

 

Il ritiro annunciato da Trump a maggio è stato perciò una mossa che nulla ha a che fare con la questione del nucleare, ma è il segnale del ritorno da parte degli USA a una politica di confronto con Teheran, a causa dell’incrociarsi degli interessi economici e strategici americani con le ambizioni e le legittime attività iraniane in Medio Oriente.

 

In concomitanza con l’annuncio del ritiro dal JCPOA, la Casa Bianca aveva stilato un elenco delle iniziative che Teheran avrebbe dovuto intraprendere per evitare nuove sanzioni. In sostanza, esse imponevano all’Iran l’abbandono della propria indipendenza e la trasformazione in una semi-colonia degli Stati Uniti.

 

A tutti gli effetti, la riapplicazione delle sanzioni punitive, con l’intenzione di mettere in ginocchio il paese e fomentare un cambio di regime, non ha alcun fondamento logico né legale e l’atteggiamento americano è infatti condannato da praticamente tutta la comunità internazionale, ad eccezione di Israele.

 

L’Europa, da parte sua, continua ufficialmente ad adoperarsi per salvare il JCPOA e mettere al riparo dalle sanzioni USA le proprie compagnie che già fanno affari in Iran. In realtà, molte di queste ultime hanno già annunciato il ritiro dal paese mediorientale per non incorrere in sanzioni “secondarie” quando operano sul mercato americano. Gli stessi governi europei nutrono peraltro poche speranze sulla possibilità di continuare a sfruttare le opportunità economiche ed energetiche prospettate dall’accordo di Vienna.

 

Qualche spiraglio rimane comunque per possibili eccezioni mirate. Dopo una serie di messaggi contraddittori, il governo di Washington ha chiarito che alcuni paesi potrebbero essere temporaneamente esentati dalle sanzioni americane se l’azzeramento delle loro importazioni di greggio dall’Iran non potrà avvenire in tempi brevi. Questi stessi paesi dovranno però dimostrare di ridurre gradualmente e considerevolmente la quantità di petrolio acquistata da Teheran.

 

La precisazione e la relativa prudenza della Casa Bianca è da collegare in primo luogo al timore che l’eliminazione dal mercato internazionale del greggio esportato dall’Iran, pari a circa 2,2 milioni di barili al giorno, possa spingere ancora di più verso l’alto le quotazioni del greggio in una fase già segnata dal rallentamento della produzione in altri paesi, come Libia e Venezuela.

 

Per far fronte a questa minaccia, oltre alla possibile sospensione temporanea delle sanzioni, Washington sta valutando lo sblocco delle proprie riserve strategiche di petrolio per destinarle all’export e, parallelamente, spinge con gli alleati sauditi per convincerli ad aumentare il ritmo delle estrazioni.

 

Gli Stati Uniti temono inoltre probabilmente anche una rottura con paesi alleati, come Giappone e Corea del Sud, o con cui stanno cercando di costruire partnership strategiche, come l’India, i quali importano petrolio in maniera consistente dall’Iran e difficilmente potrebbero trovare una fonte di approvvigionamento alternativa in tempi brevi.

 

Detto questo, soprattutto i paesi asiatici, a cominciare proprio dall’India, hanno lasciato intendere di non volersi piegare ai diktat americani e di mantenere politiche energetiche indipendenti piuttosto che andare contro i propri interessi vitali per assecondare gli impulsi destabilizzanti provenienti da Washington.

 

Il ministero degli Esteri indiano ha ad esempio ospitato recentemente una delegazione del governo iraniano e, con un occhio anche all’Europa, al centro dell’incontro ci sono stati proprio gli sforzi per individuare i “meccanismi finanziari” necessari a evitare gli effetti delle sanzioni americane.

 

A Delhi arriveranno a breve anche i rappresentanti dell’amministrazione Trump per discutere delle sanzioni e proporre forniture energetiche alternative all’India. Coerentemente con il rallentamento imposto da qualche mese al processo di allineamento strategico agli Stati Uniti, tuttavia, il governo indiano dovrebbe alla fine conservare in buona parte i rapporti attuali con la Repubblica Islamica.

 

Le posizioni più dure da parte americana potrebbero così riguardare proprio l’Europa, a conferma della tendenza declinante dello stato dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, evidenziata anche dal recente summit NATO di Bruxelles. Qualche giorno fa, infatti, il governo francese aveva confermato il rifiuto da parte degli USA della richiesta di Parigi di concedere deroghe mirate dalle sanzioni alle aziende transalpine, tra le più attive in Iran dopo la firma dell’accordo di Vienna.

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