Turchia e Arabia Saudita hanno fatto questa settimana un passo decisivo verso la completa normalizzazione dei rapporti bilaterali dopo la burrasca degli ultimi anni per via delle divergenze seguite alle vicende delle “Primavere arabe” e, più recentemente, all’assassinio di Jamal Khashoggi. L’abbraccio simbolico e materiale da parte di Erdogan dell’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (MBS), durante la sua visita ad Ankara è il riflesso di un evidente – ennesimo – ripensamento delle politiche mediorientali promosse dal presidente turco, dovuto sia a ragioni di carattere economico sia al riallineamento strategico in atto nella regione a partire almeno dall’ingresso di Biden alla Casa Bianca.

Il sequestro e la brutale uccisione del giornalista dissidente saudita nel consolato di Riyadh a Istanbul nel 2018 aveva portato al culmine lo scontro tra Erdogan e MBS. Le prove del coinvolgimento del giovane principe nell’assassinio erano state fornite dai servizi di sicurezza e dal governo della Turchia, mentre in questo paese era stato aperto un procedimento legale per risolvere il caso. Lo stesso Erdogan aveva chiamato in causa MBS, utilizzando spesso parole durissime per denunciare le responsabilità di quest’ultimo, alla luce anche delle conclusioni simili presentate dalla CIA e da un rapporto delle Nazioni Unite.

Il sospetto che il regime saudita fosse implicato, assieme almeno agli Stati Uniti, nel fallito golpe ai danni di Erdogan nell’estate del 2016 aveva a sua volta influito sul peggioramento dei rapporti tra i due paesi. In precedenza, Turchia e Arabia Saudita si erano trovate su posizioni opposte riguardo l’emergere dei Fratelli Musulmani come principale forza politica negli sconvolgimenti registrati in molti paesi arabi all’inizio del secondo decennio di questo secolo. Le due potenze regionali avevano appoggiato forze diverse ad esempio in Libia e in Egitto, così come l’approccio alla crisi siriana di Ankara e Riyadh ha seguito progressivamente strade differenti.

È fuori discussione che i fattori economici e finanziari abbiano avuto un peso importante nel disgelo tra i due paesi. Erdogan ha visto crollare la sua popolarità e quella del suo partito come conseguenza delle difficoltà economiche della Turchia, simboleggiate dal crollo della propria moneta. Erdogan ha così cercato un salvagente tra i regimi del Golfo Persico, con un occhio alle elezioni parlamentari e presidenziali del 2023 che, secondo i sondaggi, minacciano di mettere fine al suo lunghissimo dominio e a quello del suo partito (AKP; Partito della Giustizia e dello Sviluppo). Le basi definitive per la distensione con Riyadh erano state gettate a inizio anno con la chiusura dell’indagine in Turchia sull’assassinio di Khashoggi e la consegna a un tribunale saudita di tutto il fascicolo relativo al caso. Ad aprile, poi, Erdogan si era recato in visita in Arabia Saudita per la prima volta dal 2017.

Non è un caso che il comunicato congiunto seguito all’arrivo di MBS ad Ankara mercoledì, dopo le visite in Egitto e Giordania, e al colloquio con Erdogan abbia toccato in gran parte il tema della cooperazione economica. Il governo turco è impaziente di sbloccare gli investimenti sauditi, sulla scia dell’accordo sottoscritto a gennaio con gli Emirati Arabi Uniti per un fondo da dieci miliardi di dollari e per il raddoppio degli scambi commerciali. I leader di Turchia e Arabia avrebbero anche raggiunto un’intesa sull’allentamento delle barriere doganali, superando definitivamente l’embargo di fatto delle importazioni di prodotti turchi deciso da Riyadh dopo l’esplosione del caso Khashoggi. Nel 2021, secondo i dati ufficiali turchi, le esportazioni verso l’Arabia hanno avuto un valore appena superiore ai 200 milioni di dollari, contro i 3,2 miliardi del 2019.

Ci sono diversi elementi da tenere in considerazione per comprendere il cambio di rotta di Erdogan, oltre a quello di natura economica. In primo luogo, il riavvicinamento a Riyadh deve essere collegato al riassestamento complessivo della politica estera turca degli anni scorsi che stava producendo per questo paese un isolamento sempre più marcato. A dare l’impulso al cambiamento può essere stata, tra l’altro, la diversificazione strategica promossa da MBS per il regno wahhabita, concretizzatasi in un atteggiamento meno rigido, o decisamente collaborativo, nei confronti di paesi al centro di conflitti e tensioni, come Siria e, soprattutto, Israele.

Un isolamento che per Ankara rischiava seriamente di aggravarsi anche in conseguenza dei più recenti sviluppi sul fronte energetico, con il formarsi cioè di un asse tra le monarchie del Golfo, Israele, Egitto, Grecia e Cipro, considerato una seria minaccia per la Turchia, che rischia di vedersi esclusa dalle nuove rotte del gas in fase di progettazione nel Mediterraneo orientale. A riprova di ciò, è possibile citare anche la parallela riconciliazione con Israele dopo anni di gelo. Non è un caso, a questo proposito, che, in concomitanza con la visita di Mohammad bin Salman, il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, si sia recato giovedì anch’egli ad Ankara.

Dietro a questi movimenti c’è con ogni probabilità in parte il governo americano e i colloqui incrociati di questi giorni potrebbero in qualche modo preparare il terreno alla visita di Biden in Medio Oriente, programmata per la metà di luglio. Un altro intreccio è quello che riguarda l’Iran. Le relazioni tra Ankara e Teheran sono in fase calante, soprattutto per quanto riguarda la Siria, dove Erdogan vorrebbe a breve lanciare una nuova offensiva militare contro le milizie curde. La questione curda è poi un ulteriore punto di scontro con gli Stati Uniti, assieme alla partnership tra Ankara e Mosca, visto che le forze curde siriane rappresentano da tempo il punto di riferimento della presenza militare illegale americana sul territorio del paese in guerra dal 2011.

In definitiva, le mosse di Erdogan sembrano indicare una volontà di tornare a giocare le proprie carte sul tavolo del fronte filo-americano, con l’obiettivo di recuperare il terreno perduto in ambito economico e della sicurezza per via delle tensioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni. Il ristabilimento dei rapporti con l’Arabia Saudita va visto in questa prospettiva, così da evitare il rischio del consolidarsi di un blocco guidato da Riyadh e Tel Aviv nella regione mediorientale che potrebbe appunto escludere la Turchia.

Nonostante l’apparenza, le scelte di politica estera di Erdogan continuano a sfuggire a una classificazione netta. Fermo restando l’interesse economico immediato, che risponde in primo luogo a esigenze elettorali, l’orientamento strategico turco resterà quasi certamente improntato al multilateralismo e all’indipendenza.

Basti ricordare in questo senso la posizione tutto sommato equilibrata tenuta fin qui nei confronti del conflitto russo-ucraino e l’opposizione all’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO. Ciò che resta da verificare è ad ogni modo la capacità di Erdogan, a un anno esatto dal voto più delicato della sua carriera politica, di conservare in modo vantaggioso l’indipendenza strategica della Turchia in un clima internazionale sempre più infuocato.

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