L’intero pianeta continua a rimanere virtualmente con il fiato sospeso per la possibile ultra-provocatoria visita a Taiwan della “speaker” della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi. L’ottuagenaria leader democratica americana ha iniziato lunedì una trasferta asiatica che toccherà svariati paesi. La conferma ufficiale dell’atterraggio a Taipei non è ancora arrivata, ma lunedì fonti americane e taiwanesi hanno affermato che la visita sarebbe fissata probabilmente per il 2 e il 3 di agosto. La decisione non ha alcuna utilità pratica per Washington e rischia di incontrare una risposta molto dura da parte della Cina, il cui governo ha avvertito molto chiaramente dei rischi di una simile mossa e delle contromisure anche di natura militare che verranno adottate.

 

La Pelosi aveva annunciato il suo itinerario domenica citando le soste previste a Singapore, in Malaysia, Corea del Sud e Giappone, omettendo invece Taiwan. Il sollievo per quella che sembrava una marcia indietro in grado di abbassare le tensioni tra USA e Cina è però durato poco, visto che nella mattinata di lunedì in Italia è arrivata appunto la notizia, tuttora non confermata a livello ufficiale, della visita della “speaker” a Taipei.

Nei giorni precedenti erano emerse divergenze tra la Casa Bianca e il Pentagono da una parte e Nancy Pelosi e gran parte dei membri del Congresso dall’altra circa l’opportunità di una visita a Taiwan della “speaker”. Biden e i militari avrebbero sconsigliato la trasferta per evitare una pericolosa escalation dello scontro con Pechino. Tuttavia, il dipartimento della Difesa aveva predisposto i preparativi per “proteggere” l’aereo della Pelosi in caso si fosse deciso di effettuare la visita, in primo luogo con l’invio nel Mar Cinese Meridionale della portaerei “Ronald Reagan”.

Il ritorno sui propri passi di Nancy Pelosi comporterebbe una valanga di critiche in patria, soprattutto da parte repubblicana, per avere ceduto ai “diktat” cinesi. Questa eventualità era apparsa subito imbarazzante per l’amministrazione Biden e il Partito Democratico, attesi da una delicatissima elezione di “metà mandato” il prossimo mese di novembre. D’altro canto, la provocazione risulta inaccettabile per Pechino, dove i preparativi militari sono in atto da giorni per impedire o rispondere a quella che viene considerata a tutti gli effetti come un atto che mette in discussione la sovranità cinese sull’isola.

Se la visita dovesse dunque avere luogo, a nulla sarebbe servito il colloquio in videoconferenza di giovedì scorso tra Biden e il presidente cinese, Xi Jinping, durante il quale quest’ultimo aveva avvertito gli Stati Uniti a “non scherzare con il fuoco”. La consistenza delle politiche internazionali americane, al di là di quello che potrebbe essere l’esito della vicenda, viene inoltre messa nuovamente in discussione. Ufficialmente, la Casa Bianca è contraria all’iniziativa di Nancy Pelosi e, visto che quest’ultima viaggerà su un velivolo militare, il Pentagono e il presidente avrebbero potuto di fatto decidere la cancellazione della visita.

La stessa Pelosi domenica aveva rivelato di averne discusso con i vertici del comando “indo-pacifico” delle forze armate USA durante uno scalo tecnico alle Hawaii. Evidentemente, anche la posizione dell’amministrazione e dei comandanti militari non è univoca sulla questione del blitz programmato a Taiwan. Se, come sembra, dovesse andare in porto, appare anzi del tutto possibile che la Casa Bianca abbia voluto ostentare pubblicamente la propria contrarietà alla visita, ma incoraggiandola dietro le quinte, così da potersene eventualmente dissociare nel caso la situazione dovesse precipitare.

La gestione del caso Pelosi da parte di Washington rischia di mettere all’angolo anche la Cina. Minacce esplicite sono state espresse apertamente in questi giorni, inclusa l’imposizione di una “no-fly zone” sopra Taiwan per costringere l’aereo della “speaker” a cambiare rotta, ed è improbabile che la leadership cinese decida alla fine di astenersi dal prendere provvedimenti, visto che rischierebbe di perdere la propria credibilità, tanto più su una questione considerata poco meno che vitale.

La domanda da porsi è fino a dove intenderanno spingersi gli Stati Uniti, se cioè sono pronti ad affrontare uno scontro militare diretto con la Cina. Le forze armate cinesi, da parte loro, appaiono ormai pronte. Nei giorni scorsi hanno non solo condotto esercitazioni nello stretto di Taiwan, ma hanno anche diffuso un annuncio a tutta la popolazione chiedendo di “prepararsi alla guerra”. Sulle intenzioni cinesi di ricorrere alla forza militare in risposta alla visita di Nancy Pelosi si continua comunque a discutere e i dubbi in proposito saranno fugati a breve.

Resta il fatto che la prima visita a Taiwan di uno “speaker” della Camera dei Rappresentanti USA dal 1997 rappresenterebbe un ulteriore spostamento degli equilibri attorno allo status dell’isola, con la conseguente necessità da parte di Pechino di intervenire per ristabilire a tutti gli effetti il principio della sovranità cinese sull’isola. Per questa ragione, la crisi esplosa attorno alle sole intenzioni di Nancy Pelosi finirà per peggiorare le relazioni già tesissime tra le prime due potenze economiche del pianeta.

La possibile visita è d’altronde un evento che si ricollega alle politiche anti-cinesi implementate a partire almeno da Obama, fatte di pattugliamenti nelle acque al largo della Cina, di forniture di armi e, appunto, di visite di esponenti politici e militari americani a Taipei. Le provocazioni che si avvicinano o vanno al di là della linea rossa fissata da Pechino sulla questione di Taiwan sembrano rispecchiare il comportamento degli Stati Uniti in relazione alla Russia sull’Ucraina.

Una delle differenze è che, come già ricordato, Taiwan implica questioni di sovranità per la Cina e rischia quindi di trasformarsi in una conflagrazione ancora più rovinosa di quella in corso nell’ex repubblica sovietica. Che ciò avvenga nel pieno del conflitto ucraino, il cui corso sta prendendo una direzione contraria a quella voluta da Washington, dimostra sia l’insensatezza delle decisioni di politica estera della classe dirigente americana sia il livello di crisi toccato da quest’ultima. Basti pensare che l’amministrazione Biden ha addirittura intensificato le caotiche, aggressive e controproducenti politiche anti-cinesi perseguite da Donald Trump.

Un’escalation tanto più grave se si considera che la reazione cinese potrebbe risultare ancora più incisiva alla luce delle dinamiche interne. Tra pochi mesi si terrà il congresso del Partito Comunista Cinese durante il quale Xi Jinping dovrebbe ottenere un terzo mandato che è senza precedenti per la storia post-rivoluzionaria di questo paese. Con il malcontento in rapida diffusione sul fronte interno, principalmente per via di un mercato immobiliare sull’orlo del collasso e la continua imposizione di stringentissime restrizioni anti-Covid anche in presenza di una manciata di contagi, l’attuale leadership deve assolutamente proiettare un’immagine di forza.

Per contro, anche l’escalation di provocazioni americane è in qualche modo il riflesso di una debolezza estrema dell’amministrazione Biden in ambito domestico, che come di consueto cerca uno sfogo e una distrazione sul piano internazionale. Il viaggio a Taiwan di Nancy Pelosi rischia così di innescare uno scontro dalle conseguenze difficili da stimare, ma per gli Stati Uniti minaccia anche una possibile ulteriore umiliazione dopo quella incassata in Ucraina. In molti a Washington ritengono infatti di potere alzare le pressioni su Pechino fino a spingere la leadership cinese a desistere e ad accettare i termini del confronto fissati dagli USA.

Come sta accadendo nella sfida con la Russia, tuttavia, la classe dirigente americana sottovaluta pericolosamente le potenzialità e la determinazione della Cina. Portare fino in fondo la provocazione di Nancy Pelosi attorno a Taiwan potrebbe in definitiva trasformarsi in un boomerang, mostrando una volta per tutte l’impossibilità degli Stati Uniti di sostenere con le azioni le rimanenti velleità di continuare a svolgere il ruolo di potenza egemone in un pianeta caratterizzato da tendenze multipolari ormai inarrestabili.

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