Qalqilya è completamente rinchiusa dal muro, come in un tragico rovesciamento delle mura medievali delle città europee. La città si srotola su una collina e domina il villaggio israeliano di Kefar Sava, dall'altra parte del muro. Gli israeliani non possono entrare a Qalqilya, come ricorda un cartello passato il cancello. Il tassista israeliano però è particolarmente comprensivo e si addentra nei Territori per qualche centinaio di metri, lasciandomi alle porte della città. Lungo il breve tragitto non smette un minuto di ricordarmi che qui ci abita solo gente pericolosa e cattiva e cerca invano di dissuadermi. Poi incontro la mia guida, un'amica italiana che vive in città e lavora per una ONG. Gli aiuti europei, trasformati in lavori socialmente utili (costruzione di muri, strade, scuole), sono l'unica goccia che alimenta il prosciugato mercato del lavoro nella West Bank. I finanziamenti governativi all'ANP sono stati tagliati: è la punizione collettiva contro la libertà di scelta democratica dei palestinesi. Senza il contributo delle poche ONG, la vacillante economia palestinese crollerebbe definitivamente.
Il nostro viaggio comincia sulla strada principale di Qalqilya, un viale alberato che collega la città con Kefar Sava. Qalqilya è una città rurale, i suoi abitanti sono per lo più contadini. Qui e là, in mezzo alle case, si scorgono tratti di campagna, qualche agrumeto "urbano", greggi di pecore che belano tra le case. Qui e là si vedono dei piccoli orti tra i palazzi, uno in particolare attira la mia attenzione: è recintato con una dozzina di lavatrici ormai semidistrutte; i palestinesi si arrangiano con quello che trovano, in ogni palazzo, al piano terra, c'è una rivendita di attrezzi usati.
Fino a cinque anni fa, prima della seconda Intifada, la strada che stiamo percorrendo era l'arteria principale di collegamento con i Territori, un via vai incessante di arabi ed ebrei che commerciavano tra i due lati della Linea Verde. La testimonianza del passato di ferventi scambi è nell'architettura delle abitazioni: ai lati della strada si alternano sfarzose ville arabeggianti a discrete case in stile israeliano. Ma dopo solo cinquecento metri, le ultime case sono sbarrate e poi ancora solo resti del passaggio dei bulldozer dell'IDF (l'esercito israeliano). E qui la strada finisce: l'imponente muro grigio di cemento armato si staglia di fronte a noi, sormontato da un'ancor più alta torretta. Ci fermiamo a cinquanta metri dal muro, i soldati di guardia non amano i curiosi e nemmeno i bambini, che a volte giocherellando nei pressi vengono falciati senza pietà. Il muro è un mostro grigio alto otto metri, ma i coraggiosi graffittari palestinesi hanno cercato di addolcirne la vista dipingendolo di rosso, bianco, verde e nero, affrescandolo di bandiere palestinesi.
La recinzione (fence) lunga circa seicento chilometri, che il governo israeliano sta completando, si snoda attorno a tutta la West Bank, ma è molto più lunga dell'effettivo perimetro dei Territori. Il suo percorso infatti non segue la Linea Verde del '67, ma ha un andamento all'apparenza frattale, che si incunea profondo tra i villaggi palestinesi, isolandoli gli uni dagli altri. Non è una linea continua, ma tante linee che si intersecano, si allontanano e si riavvicinano, corrono parallele. Per la maggior parte della sua lunghezza, la fence consiste in una strada protetta da entrambi i lati da un'alta rete elettrificata ad alto voltaggio. Lungo la strada si vedono passare pattuglie israeliane oppure macchine dei coloni, che la usano come scorciatoia. È solo nei pressi delle grandi città palestinesi come Tulkarm, Qalqilya, Gerusalemme Est, che la recinzione si trasforma in un muro vero e proprio.
In gabbia
Proseguiamo
su una strada sgarrupata che costeggia il muro, diretti al villaggio di Beit
Amina, che si trova a qualche chilometro dal centro. Il muro lascia il posto
alla rete elettrificata, interrotta qui e là dai passaggi per gli agricoltori.
Si tratta di varchi nella fence, dei piccoli cancelli gialli che in teoria
dovrebbero restare sempre aperti, per permettere ai contadini di raggiungere
i campi al di là del muro. Ma purtroppo i varchi restano sempre chiusi
e i contadini palestinesi devono spesso camminare chilometri e passare vari
check point per poi ritornare davanti a casa a badare agli orti, ma al
di là del muro.
Per raggiungere il villaggio attraversiamo il muro ben due volte. Ad un certo
punto infatti la strada sprofonda in un sottopassaggio oltre il quale, a sorpresa,
si trova un secondo sottopassaggio. In questa zona, infatti, il muro raddoppia
e due file di recinzioni elettrificate corrono parallele. Ai lati dei due sottopassi,
due enormi cancelli di metallo aspettano, pronti per sigillare l'uscita della
città durante le operazioni israeliane. L'ultima volta è stata
due settimane fa, subito dopo l'attentato suicida alla stazione dei bus di Tel
Aviv, che ha causato dieci morti. Attraversiamo i cancelli insieme con un lunghissimo
gregge di pecore che belando ci scorta oltre il muro. Ma arrivati dall'altra
parte, in un'inverosimile proliferazione troviamo un altro muro, che ci separa
dal territorio israeliano vero e proprio.
La
strada che prosegue per Beit Amina si trova ora tra due recinzioni: da una distanza
iniziale di un centinaio di metri, si restringono fino ad un check point
con la sua torretta di guardia. Davanti a noi si alza una collina, spaccata
in due dal muro, che divide il villaggio palestinese da un piccolo insediamento
di coloni israeliani, fortificato e protetto dal check point. Soltanto
una centinaio di metri in linea d'aria separa le finestre di una casa palestinese
(con la tipica cisterna d'acqua che svetta sul tetto piatto) dalle villette
dei coloni, i cui tetti rossi punteggiano qui e là anche le cime delle
colline tutt'intorno, protette dalla ragnatela dell'onnipresente fence.
Al
check point, una fila di palestinesi aspetta di poter passare, chi in
macchina, chi col trattore e chi a dorso di un mulo, per raggiungere l'altra
metà del villaggio al di là del muro, a ridosso dell'insediamento.
La mia amica mi racconta che a volte un pullman di coloni esce dall'insediamento
e attraversa il check point fino al villaggio. Aspettano i bambini palestinesi
all'uscita da scuola: quando va bene gli tirano sassi, a volte però scendono
dal pullman e picchiano sia i ragazzini che le loro mamme.
Qualche settimana fa i coloni hanno lapidato anche una ragazza italiana della
cooperazione internazionale, che stava davanti alla scuola palestinese proprio
per scoraggiare le aggressioni dei coloni. Che puntualmente riescono a scappare
prima che arrivi l'esercito.
Oltre il check point, da uno squarcio tra le colline si apre un panorama
mozzafiato su Israele e la skyline dei grattacieli di Tel Aviv, distanti
una ventina di chilometri. Si può persino intravvedere il mare, in cui
la maggior parte degli abitanti di Qalqilya non hanno mai potuto fare il bagno,
rinchiusi da sempre nella loro prigione.
La città
Tornati a Qalqilya, passiamo per alcuni quartieri periferici fatiscenti, dove fino a cinque anni fa si svolgevano traffici illegali di vario tipo. Ma dall'inizio dell'Intifada, persino le attività criminali si sono prosciugate, proprio come il resto dell'economia palestinese. Più avanti, sul viale centrale alcuni vigili dirigono il traffico caotico senza alcun apparente risultato. Agli incroci, i pochi semafori sono rigorosamente spenti. Vedendo la nostra auto, sul cui tetto sventola la bandiera di un'ONG, i vigili si avvicinano premurosi e ci indicano dove parcheggiare, salutandoci calorosamente.
Il suq di Qalqilya è simile in tutto e per tutto al mercato di Tel Aviv o di Gerusalemme, casse di frutta colorata accatastate dappertutto e una folla di avventori tra i negozi di vestiti arabi. Tra i negozi si affaccendano anche donne senza velo, nonostante il sindaco della città sia di Hamas: Qalqilya è una città laica, come molte altre nella West Bank. Per lo più si tratta di arabe israeliane, che vengono a fare la spesa a Qalqilya con gran risparmio, a dispetto del divieto di ingresso per i cittadini israeliani. Alcuni bambini mi scambiano per un ebreo e mi apostrofano al grido di "shalom shalom", attirando su di noi gli sguardi della gente. È raro infatti che si vedano occidentali in città, di questi tempi: cinque internazionali in tutto vivono a Qalqilya e al momento sono tutti al lavoro sul campo. Ma l'atmosfera che si respira è comunque cordiale e ogni tanto qualche commerciante saluta la mia guida, i cooperanti sono molto benvoluti nei Territori.
Al Fatah e Hamas
Entriamo
in una cartoleria e veniamo accolti da un sonoro "Buongiorno!". Yasser,
il proprietario, ha studiato giornalismo in Italia e parla un ottimo italiano.
Al punto che, quando mi presento, riconosce subito dal mio accento le mie origini
venete, lasciandomi esterrefatto. Gli chiedo come vanno gli affari in città.
"Malissimo, da due mesi non si vende più niente, ormai i negozi
stanno chiudendo. Da quando Hamas è al governo siamo alla rovina."
Yasser è un attivista di Al Fatah e con molta eloquenza snocciola
i recenti successi del suo partito. "Un mese fa i sondaggi davano Hamas
al 42% e Fatah al 35%, ma nel nuovo sondaggio di questa settimana si
è invertito il rapporto e ora siamo noi avanti. Nelle ultime elezioni
studentesche all'Università di Al Quds (Gerusalemme, nda), Al
Fatah ha stravinto." Mi spiega che le elezioni universitarie sono molto
importanti, quasi come quelle politiche, perché sono gli studenti che
poi formano l'opinione pubblica in tutta la West Bank. "Vedrai che molto
presto le cose cambieranno, questi bugiardi e incapaci dovranno andarsene via,"
conclude, riferendosi ad Hamas con fare allusivo. Gli chiedo in che modo
conta di cambiare governo, se spera di tornare di nuovo a votare. "Tutti
i giorni si vedono manifestazioni contro Hamas, oggi per esempio il sindacato
degli insegnanti è sceso in piazza perché da mesi non ricevono
lo stipendio. Ieri c'è stata una manifestazione a favore del governo
e sai in quanti si son trovati? Duemila persone! Nessuno va più ai comizi
di Hamas, la gente è stufa." Gli domando come mai allora
alle elezioni ha vinto Hamas e con un buon margine. "Li hanno votati
non perché siano islamisti, noi palestinesi siamo sempre stati laici,
ma perché dopo dieci anni di Fatah tutti pensavano che ci fosse
corruzione. Ma adesso i corrotti sono stati condannati, a Gerico sono finiti
in galera in venticinque, l'unico caso in tutti i Paesi Arabi! Abbiamo perso
le elezioni per colpa nostra, ci siamo divisi in varie correnti. Invece di fare
la campagna elettorale contro Hamas, tutti davano addosso ai propri nemici
dentro Fatah. Come risultato, adesso tutto è in mano a questi
incapaci. La settimana scorsa qui a Qalqilya siamo persino rimasti senza benzina.
Poi il nostro Presidente Abu Mazen ha pagato la bolletta e la benzina è
tornata. Ma se aspettavamo Hamas..." Yasser ormai è inarrestabile,
"Il sindaco della città è di Hamas, e tutti sanno
che sono mafiosi: danno lavoro e i soldi degli aiuti solo ai loro attivisti;
gli altri devono stare alla larga. Hanno persino creato dei fondi segreti con
i Paesi Arabi, ma usano i soldi per le loro faccende private. Quando noi di
Fatah eravamo al governo, invece, distribuivamo i beni e il lavoro democraticamente,
a seconda della povertà delle famiglie."
Razzismo palestinese
Il centro di Qalqilya è molto tranquillo, nessuno gira armato e in tutto il giorno abbiamo incrociato solo un paio di poliziotti palestinesi. Niente a che vedere con le cronache quotidiane di scontri a fuoco tra i militanti delle opposte fazioni, di cui si sente spesso parlare a Gaza. "Qui è tutto tranquillo," mi conferma Yasser, "perché in West Bank risolviamo i problemi con la politica e con il dialogo. Quello che succede a Gaza non ci interessa e non vogliamo saperne." Questo commento mi lascia perplesso, dal momento che nell'immaginario collettivo i palestinesi lottano uniti contro l'occupante israeliano. Yasser ha le idee molto chiare a riguardo, "Noi non abbiamo niente a che fare con quelli che stanno a Gaza. Siamo diversi, nei tratti del viso, nella carnagione, persino la lingua che parliamo è diversa. Loro sono africani, noi invece in West Bank siamo simili ai nostri fratelli giordani e siriani. A Gaza la gente non ha studiato, non sanno cos'è la politica, sanno risolvere le questioni solo a fucilate. Lì adesso c'è una guerra civile, temo che moriranno migliaia di persone, mentre i soldati israeliani se la ridono al di là del muro. Hamas ha un esercito vero e proprio, ma anche Fatah ce l'ha, e molto più forte, vinceremo sicuramente." Il risentimento di Yasser è evidente, ma ancora non ne capisco la ragione, quindi lui ricorre ad un esempio sinistramente familiare, "Per noi quelli che stanno a Gaza sono come gli albanesi per voi italiani. Fino a cinque anni fa," prosegue, "prima dell'Intifada molta gente veniva qui a Qalqilya da Gaza, ma la maggior parte non voleva lavorare, rubavano nelle nostre case e, siccome non avevano mai visto donne senza velo perché sono islamici, picchiavano le nostre donne. Poi li abbiamo mandati via." Questo razzismo dei palestinesi della West Bank nei confronti degli abitanti di Gaza mi prende alla sprovvista, non se ne parla spesso nei media occidentali. Grazie alla sincerità di Yasser, forse ora capisco perché Abu Mazen non ha preteso il rispetto dell'accordo con Condoleezza Rice e Sharon lo scorso anno, quando è stato aperto il valico di Rafah tra la striscia di Gaza e l'Egitto. La metà dell'accordo che prevedeva l'apertura del confine a Rafah fu onorato dagli israeliani, dopo enormi pressioni americane e europee. Ma l'altra metà dell'accordo, che prevedeva la partenza di convogli giornalieri tra Gaza e la West Bank, non fu mai messo in pratica. Abu Mazen all'epoca spese poche parole per pretendere la partenza dei convogli e non se ne fece più niente. Forse perché in West Bank in fondo non sono in molti a voler riabbracciare i fratelli di Gaza.