“Nei primi due anni di pandemia i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15.000 dollari al secondo, 1,3 miliardi di dollari al giorno. Nello stesso periodo 163 milioni di persone sono cadute in povertà a causa della pandemia.” Questo non è un estratto da un documento di un sindacato di base, ma l’incipit di un articolo del Sole 24 Ore.

A rinforzare la dose e la tesi, è sopraggiunta la lettera di 102 ultramiliardari, autonominatosi “Milionari patriottici”, nella quale esortano i governi di tutto il mondo a fargli pagare le tasse. Più tasse. No, non è uno scherzo né tanto meno l’effetto di qualche sostanza psicotropa; campeggia nelle prime pagine dei maggiori quotidiani e nelle aperture dei tg. In occasione del World Economic Forum, in corso a Davos in Svizzera, dove ha sede l’organizzazione, questo manipolo di super-ricchi ha reso pubblica una lettera nella quale mette nero su bianco una esortazione sorprendente; tassateci di più, tassateci ora.

 

Tra i firmatari appare Abigail Disney, erede del più famoso Walt, e dunque il richiamo a Paperone è pressoché immediato e scontato, pertanto, lo eviteremo. Ma non possiamo evitare di strabuzzare gli occhi dinanzi a una simile dichiarazione di intenti. Ci chiediamo cosa avrà fatto scattare questo inverosimile rigurgito di “onestà” nel cuore di questi improbabili benefattori: la vergogna? Il senso di colpa? La paura? Paperino? Forse non lo sapremo mai, o meglio non sapremo mai le reali motivazioni. Dobbiamo fermarci alle loro parole e ai numeri che inchiodano la logica alla realtà.

E la realtà dice che la pandemia, nel brevissimo tempo della sua espansione, è diventata (anche) un terribile paradigma delle diseguaglianze. Se ad affermarlo però, e solo dopo pochi mesi, sono stati degli inguaribili bolscevichi come noi, il minimo che può succedere è che si passi per incalliti idealisti o pericolosi sovversivi; se invece a dichiararlo, a due anni dallo scoppio della pandemia, sono i Milionari patriottici, il mondo intero ci si sofferma e inizia a porsi delle domande. A non sapere più dove si colloca il limite tra il dramma della povertà e la farsa della carità.

Non dovrebbe essere più una novità che i margini di guadagno di un circolo ristretto di magnati lievitino esponenzialmente e quotidianamente grazie all’aumento progressivo e sistematico della disperazione. Tanto per rimanere in ambito di tragedie umanitarie paradigmatiche delle diseguaglianze, le migrazioni si prestano alla medesima lettura “offerta” dalla emergenza pandemica. Sulle stragi alla soglia della fortezza occidentale, si ricompongono lugubri alleanze politiche che autorizzano la xenofobia e lo strisciante sfruttamento che ne consegue. Conventicole di potere che giustificano draconiane ricette economiche.

Anche in questo caso, non c’è bisogno di ricorrere allo spauracchio del veterocomunismo, è sufficiente ripercorrere gli Angelus di Papa Francesco per trovarci innumerevoli denunce sulla disumanità del neoliberismo. Le orecchie che ascoltano, le dimenticano nel giro di un amen. D’altronde, per ritornare in una dimensione laica, il movimento nato più di dieci anni fa e stanziatosi nel cuore della finanza mondiale, lo urlava a chiare lettere: noi siamo il 99%. Il messaggio iconico di Occupy Wall Street era infatti questo, contro l’1% che ne divora famelicamente le tante risorse e i pochi averi.

Oggi, lo 0,001 di quell’1% recita il mea culpa e intende farlo recitare a governi e amministrazioni troppo benevoli finora nei loro confronti. Sottintendendo che la persecuzione fiscale si è scatenata solo ed esclusivamente sui redditi medi bassi e bassissimi, lasciando che quelli stellari continuassero indisturbati la corsa verso la loro inviolabilità.

La vicenda è talmente seria che si presterebbe alla più spietata delle ironie, ma sulla povertà che negli ultimi anni, da molto prima del marzo 2020, ha invaso settori ritenuti impenetrabili, c’è davvero poco da ridere. Le super-propagandate attività benefiche di Bill Gates e le iper-pubblicizzate donazioni magnanime di Jeff Bezos convincono quanto l’auspicio degli ultramiliardari a essere perseguitati dal fisco.

Un invito, tutto sommato, alla rassegnazione, al tacito riconoscimento della irrealizzabilità di un’alternativa al capitalismo. Esso può cambiare modalità e variare gli strumenti con i quali esercita il proprio dominio, ma non può essere minimamente messo in discussione. Neanche in un periodo in cui tutte le sue nefandezze sono venute alla luce; le privatizzazioni nella sanità, lo svilimento dell’istruzione, la precarizzazione endemica del mondo del lavoro, solo per ricordarne alcune. Tutt’al più, ne può essere consolidato l’appeal con la crescita ipertrofica della digitalizzazione e la redditizia deriva social che trascina con sé. Una sverniciata di puritanesimo, sulle pareti sudicie ma ancora intatte del neoliberismo, è sufficiente per dare lustro alla prevaricazione e alla impunità.

Un po’ quello che succede nella disputa tra chi vuole salvare il pianeta da un irreversibile epilogo, se si dovesse proseguire (come sembra) con il modello di “sviluppo” che abbiamo conosciuto fino a oggi, e la cosiddetta Green Economy, un diversivo efficace che ne procrastina i nocivi effetti. Alla democrazia, appare evidente, non è certo riservato un ruolo di primo piano. Al contrario, è del tutto secondaria rispetto agli interessi esorbitanti di corporation che vantano profitti da far impallidire i PIL di molti paesi che, per assurdo, non riescono a fare a meno dei servizi che le aziende high tech offrono. A caro prezzo, tanto da prevalere su legislazioni e diritti che piuttosto dovrebbero garantire la priorità della convivenza democratica, e non la sua subordinazione.

A poco servono gli scatti di orgoglio della Unione Europea, che cerca disperatamente da tempo di arginare lo strapotere di aziende ormai divenute entità sovranazionali, noncuranti delle leggi che regolano un qualsiasi stato. E dei suoi confini, invalicabili solo per chi è costretto ad affrontarli per la stessa sperequazione che assicura la ricchezza di una classe predatoria inossidabile; vale nelle acque del Mediterraneo, alle porte della Polonia e lungo il confine tra Texas e Messico.

Non è un caso che popoli che scelgono di opporsi ai reiterati tentativi di neocolonialismo vengano puntualmente tacciati di complicità con regimi dittatoriali che ne reprimono il dissenso. Cuba, Venezuela, Nicaragua, Bolivia, nell’orbita del “giardino di casa” degli Stati Uniti, sono un esempio dignitoso di sovranità rispetto alle mortifere farneticazioni del sovranismo.

In definitiva, le lacrime di coccodrillo di 102 straricchi non risolvono il problema di intere società sottomesse alle leggi del Mercato, alla spietatezza della Finanza e all’immobilismo dei governi. Casomai lo amplificano, spostando l’attenzione dalla necessità di eliminare il capitalismo alla condizione permanente della sua immutabilità. Non spetta ai rappresentanti delle oligarchie, che da secoli ne hanno perpetrato il saccheggio e la spoliazione in ogni angolo del mondo, stabilire i criteri della Uguaglianza. È compito di quel 99% che ne ha subito i drammatici effetti. Inviando un inequivocabile messaggio alla Storia con la partecipazione e la resistenza, non con una lettera.                 

 

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