Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per ottenerne l’estradizione dal Regno Unito. Martedì, infatti, nell’ultimo giorno utile stabilito dall’Alta Corte di Londra, il dipartimento di Giustizia USA ha presentato ai giudici le “rassicurazioni” richieste a fine marzo circa il trattamento legale che verrà riservato ad Assange una volta giunto in territorio americano.

 

Erano due le questioni sollevate dalla Corte in risposta alle istanze della difesa. Gli Stati Uniti dovevano cioè garantire che nel processo che attende Assange non verrà richiesta una condanna alla pena di morte e che non ci saranno discriminazioni in base alla sua cittadinanza non americana.

Questo secondo punto potrebbe essere quello decisivo nel procedimento in corso. Il trattato di estradizione tra USA e Regno Unito si basa sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e se uno o più diritti fissati da quest’ultima rischiano di non essere garantiti nel paese dove l’imputato dovrebbe essere trasferito, la richiesta di estradizione viene respinta. Per quanto riguarda la pena di morte la questione è sufficientemente chiara. Quella relativa alla possibile discriminazione di un cittadino di un paese diverso dagli Stati Uniti è invece più complessa.

I giudici britannici avevano accettato la tesi della difesa, secondo la quale ad Assange potrebbero non venire riconosciuti i diritti previsti dal Primo Emendamento alla Costituzione americana, che ha a che fare con la libertà di espressione e di stampa. L’Alta Corte aveva perciò imposto all’accusa di fornire una garanzia scritta in merito a questo diritto, ritenuto appunto imprescindibile dalla legge sull’estradizione britannica.

Questa richiesta aveva scatenato un accesissimo dibattito soprattutto tra i commentatori indipendenti. Di fatto, il dipartimento di Giustizia americano non è in grado di dare una simile rassicurazione per due ragioni che si intrecciano tra loro. In primo luogo perché, almeno formalmente, negli Stati Uniti come nel resto delle democrazie liberali occidentali vige il principio della separazione dei poteri. Il dipartimento di Giustizia è un organo dell’esecutivo e, al di là delle dichiarazioni rilasciate nel quadro del caso Assange, non può vincolare ad esse le decisioni del potere giudiziario.

Una volta alla sbarra negli USA, Assange potrebbe non potersi appellare al Primo Emendamento, poiché questa decisione spetta ai rappresentanti del potere giudiziario. È anzi molto probabile che ciò accada, visto che una sentenza della Corte Suprema del 2020 (caso “USAID contro Alliance for Open Society”) aveva stabilito che un cittadino straniero al di fuori degli Stati Uniti non gode dei diritti costituzionali di questo paese. Questa tesi, in merito ad Assange, era stata peraltro ribadita esplicitamente da esponenti del governo americano, come ad esempio l’ex direttore della CIA, Mike Pompeo.

Qualsiasi rassicurazione in questo senso non avrebbe quindi alcun significato, non rappresenterebbe in altre parole una rassicurazione. Infatti, il contenuto della “nota diplomatica” presentata dal governo americano martedì all’Alta Corte di Londra è coerente con questo principio. I rappresentanti del dipartimento di Giustizia di Washington assicurano soltanto che ad Assange e ai suoi legali sarà consentito appellarsi alle protezioni previste dal Primo Emendamento. Che poi l’istanza venga accettata non è garantito, né un organo del potere esecutivo americano è in grado di garantirlo.

La moglie di Assange, Stella Moris, nel commentare l’iniziativa americana di martedì ha definito quella relativa al Primo Emendamento una “non rassicurazione”. E, in effetti, non poteva essere altrimenti. Il risultato dovrebbe essere il rifiuto dell’estradizione, ma tutto il procedimento nei suoi confronti ha i contorni della farsa giudiziaria, al fine di consegnare Assange nelle mani del governo americano, e la decisione finale dei giudici dell’Alta Corte è quindi tutt’altro che scontata.

Dopo la mossa di martedì dell’accusa, i legali del numero uno di WikiLeaks avranno facoltà di confutare la credibilità delle “rassicurazioni” americane. A sua volta, il dipartimento di Giustizia USA potrà controbattere ulteriormente. Il 20 maggio è in calendario la prossima udienza della Corte, che dovrà decidere se accettare o meno le “rassicurazioni” americane.

Se accettate, le strade legali nel Regno Unito per fermare l’estradizione saranno concluse. L’unica opzione che resterebbe è un appello alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ma il governo del premier Rishi Sunak potrebbe mettere Assange in fretta e furia su un volo per gli Stati Uniti, anticipando e di fatto neutralizzando un’eventuale ingiunzione per sospendere l’estradizione. Nel caso invece i giudici dovessero accogliere le tesi della difesa, Assange avrebbe diritto a un appello vero e proprio contro la decisione presa nel 2022 dal ministero dell’Interno britannico di consegnarlo agli USA.

Da qui al prossimo mese potrebbero esserci ad ogni modo nuovi sviluppi nella vicenda. Alcune settimane fa, in particolare, il Wall Street Journal aveva scritto che gli Stati Uniti stavano valutando la possibilità di un patteggiamento, secondo il quale Assange si sarebbe dichiarato colpevole del reato minore di “uso improprio” di materiale governativo classificato in cambio dello stralcio delle accuse più gravi. Dall’accordo sarebbe uscita una condanna relativamente breve, soddisfatta dal periodo di detenzione preventiva scontata – ormai dal 2019 – nel carcere di massima sicurezza britannico di Belmarsh. La notizia non era stata confermata e poteva benissimo essere un tentativo dell’amministrazione Biden di sondare la disponibilità dei legali di Assange ad accettare una soluzione concordata.

A Washington le pressioni internazionali cominciano ad avere un certo effetto. La persecuzione di un giornalista, colpevole di avere svolto il proprio lavoro facendo conoscere al pubblico i crimini dell’imperialismo americano, non aiuta infatti la posizione di un presidente in piena campagna elettorale e già nei guai per la crescente impopolarità delle cause di Ucraina e Israele, su cui la sua amministrazione ha puntato un capitale politico enorme.

D’altro canto, l’obiettivo americano resta quello di impartire una lezione ad Assange, così da fare di quest’ultimo un esempio e un avvertimento per tutte le voci libere e indipendenti del giornalismo. Nel mezzo resta una terza possibilità, solo di poco meno deprecabile dell’estradizione immediata. Vale a dire un ulteriore rinvio della decisione definitiva sulla richiesta americana, con l’obiettivo di tenere il caso il più lontano possibile dal dibattito pubblico e, soprattutto, di distruggere moralmente e fisicamente il giornalista australiano, tenuto a oltranza in una sorta di limbo giudiziario senza via d’uscita.

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