Il fronte filo-sionista e i media ufficiali in Occidente sono in pieno fermento da alcuni giorni per la possibile clamorosa rottura che si starebbe consumando tra il presidente americano Trump e il governo di ultra-destra israeliano del primo ministro/criminale di guerra Netanyahu. Il rilascio nella giornata di lunedì da parte di Hamas del prigioniero con cittadinanza americana, Edan Alexander, è arrivato infatti al termine di una trattativa diretta tra gli Stati Uniti e il movimento di liberazione palestinese che governa Gaza. La vicenda avrebbe creato seri problemi a Tel Aviv, visto anche che si aggiunge ad altri recenti sviluppi che hanno visto la Casa Bianca agire sulle questioni mediorientali senza consultare il principale alleato americano nella regione. Se di vera rottura si può parlare lo si vedrà a breve, quando le diverse direzioni presumibilmente prese da USA e Israele potrebbero portare a uno scontro aperto, spingendo Trump a decidere per quali interessi la sua amministrazione è realmente intenzionata ad adoperarsi.

La liberazione di Alexander, soldato dell’esercito di occupazione con passaporto americano, è stata collegata dai vertici di Hamas ad un processo negoziale in corso con gli Stati Uniti per “ridurre le tensioni” e cercare di gettare le basi di un accordo politico di ampio respiro nella striscia. La rete libanese Al Mayadeen ha citato esponenti di Hamas che hanno appunto ricondotto il gesto di “buona volontà” mediato da Washington a un insieme di iniziative, verosimilmente in fase di discussione, per “fermare l’aggressione [israeliana a Gaza], riaprire i valichi di frontiera e facilitare l’ingresso di aiuti umanitari”.

Per Hamas resta invariato l’impegno a raggiungere una tregua permanente che porti allo scambio di tutti i prigionieri, alla creazione di un organo di governo indipendente e alla ricostruzione della striscia garantendo la permanenza nelle proprie terre di tutta la popolazione palestinese. Trump ha da parte sua scritto in un post sul suo “social” Truth che, “auspicabilmente”, la liberazione di Edan Alexander rappresenta “il primo dei passi finali necessari per mettere fine a questo conflitto brutale”. Mentre ha poi ringraziato Egitto e Qatar per il contributo al negoziato con Hamas, il presidente americano non ha fatto nessun riferimento a Israele.

Le dichiarazioni ufficiali israeliane hanno invece cercato di minimizzare le differenze con la Casa Bianca o di alterare le caratteristiche dell’accordo per allinearlo alle posizioni di Netanyahu. L’ufficio del primo ministro ha spiegato ad esempio che il rilascio del militare detenuto a Gaza sarebbe solo un gesto di “buona volontà” nei confronti di Trump “senza condizioni né concessioni”. Sempre secondo Tel Aviv, la liberazione dovrebbe favorire negoziati per il rilascio di altri “ostaggi” nelle mani di Hamas.

Il riferimento, per Israele, sarebbe insomma il cosiddetto “piano Witkoff”, ovvero la proposta sottoposta dall’inviato del presidente americano a Hamas dopo la rottura unilaterale della tregua da parte di Netanyahu e che aveva come obiettivo il solo rilascio di tutti i prigionieri israeliani ancora a Gaza, senza nessuna garanzia circa lo stop permanente all’aggressione né sull’ingresso degli aiuti. Il regime sionista non sembra intenzionato, almeno a livello pubblico, a fare passi indietro e continua infatti a ribadire che il piano per intensificare le operazioni militari a Gaza verrà implementato se l’imminente visita di Trump in Medio Oriente non dovesse produrre nuovi elementi.

La stessa stampa israeliana ha scritto che l’amministrazione repubblicana starebbe lavorando a un piano che prevede solo “input minimi” da parte di Tel Aviv e un accordo più ampio per la ricostruzione della striscia con un ruolo diretto degli Stati Uniti. Hamas, in questo quadro, potrebbe avere un ruolo nell’amministrazione di Gaza e, secondo rivelazioni riportate dalla testata panaraba Al-Araby Al-Jadeed citando fonti egiziane, la Casa Bianca avrebbe anche abbandonato la richiesta del disarmo di Hamas come condizione preliminare per arrivare a una tregua.

Questo aspetto potrebbe essere discusso in un secondo momento e la cambiata attitudine americana dipende dalla presa d’atto della “inutilità” dell’approccio israeliano, basato unicamente su pressioni e minacce militari per ottenere la liberazione dei prigionieri di Hamas. Il governo USA ritiene anche “impraticabile” l’esilio forzato dei leader del movimento di liberazione palestinese, come chiede invece Israele. Per tutte queste ragioni, Egitto e Qatar riportano un certo “senso di ottimismo” tra i negoziatori circa la possibilità di raggiungere un accordo di ampia portata nel prossimo futuro.

Sempre secondo la stampa israeliana, Trump avrebbe “perso la pazienza” nei confronti di Netanyahu, non solo per l’ostinazione nel continuare a perseguire il genocidio palestinese a Gaza, ma anche per la sua irremovibilità nell’opporsi a qualsiasi progresso in relazione ai vari fronti mediorientali in cui gli Stati Uniti sono coinvolti. Trump avrebbe così deciso di prendere l’iniziativa e presentare le proprie decisioni a Israele come “fatti compiuti”. È il caso ad esempio dell’annuncio settimana scorsa della cessazione dei bombardamenti contro il governo di Ansarallah in Yemen, avvenuto senza consultare Netanyahu e senza alcun impegno degli “Houthis” a cessare gli attacchi contro obiettivi israeliani.

La Casa Bianca avrebbe anche deciso di non includere la normalizzazione con lo stato ebraico nell’accordo di cooperazione nucleare in discussione tra Washington e l’Arabia Saudita. A questo proposito, molti commentatori hanno ipotizzato che i tre regimi sunniti che accoglieranno Trump nei prossimi giorni – Arabia, Qatar, Emirati Arabi – potrebbero spingere per iniziative a favore di una tregua a Gaza attraverso pressioni su Netanyahu. Significativamente, la trasferta mediorientale del presidente americano non prevede una tappa in Israele.

Queste dinamiche si intrecciano anche ai colloqui in corso con l’Iran, di cui il quarto round è andato in scena sabato scorso in Oman. Se i messaggi che arrivano da Washington continuano ad alternare aperture a minacce, la prosecuzione delle trattative sembra indicare una certa serietà da parte americana nel raggiungere un accordo sul nucleare. La NBC ha d’altra parte rivelato nei giorni scorsi i malumori che circolano a Tel Aviv, con il premier Netanyahu decisamente “preoccupato” per l’intesa che potrebbe essere siglata tra Stati Uniti e Repubblica Islamica.

Non è chiaro su quali basi i negoziatori di Hamas si aspettino dall’amministrazione Trump iniziative che possano alleviare la crisi catastrofica che sta vivendo la striscia a causa dell’aggressione israeliana. Le trattative con gli Stati Uniti sembrano però procedere in direzione opposta all’offensiva militare del regime sionista in questo frangente e, se i disegni della Casa Bianca dovessero realmente includere un qualche piano per stabilizzare la situazione a Gaza, non per scrupoli umanitari quanto per convenienza politica, è inevitabile che si arriverà a uno scontro tra Washington e Tel Aviv.

O, da un altro punto di vista, se non dovesse allentare le pressioni su Hamas e la popolazione palestinese dopo la liberazione di Edan Alexander, Netanyahu costringerà Trump a fare una scelta che, vista l’influenza sionista sull’amministrazione repubblicana e la politica americana in genere, sembra facile scommettere sarà a favore di Israele (e del genocidio). In questo caso, però, tutti i progetti diplomatici trumpiani in Medio Oriente, dall’Iran all’Arabia Saudita fino allo Yemen, finiranno molto probabilmente per crollare, con le inevitabili conseguenze in termini di immagine e di consenso, oltre che per gli interessi americani, che ne deriveranno.

Quella della Casa Bianca sembra ad ogni modo una strategia coordinata anche con ambienti politici e militari israeliani che si oppongono al regime di Netanyahu. Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le uscite pubbliche di personalità israeliane che hanno attaccato il primo ministro per la conduzione della guerra nella striscia. Un altro elemento di pressione efficace è l’accusa di avere incrinato i rapporti tra USA e Israele. Una questione, quest’ultima, come sempre delicatissima per la classe dirigente sionista, visto il contributo vitale di Washington alla “sicurezza”, per non dire alla sopravvivenza stessa, dello stato ebraico.

Quali che siano gli sviluppi della crisi, la sensazione di molti osservatori è che ci si stia avvicinando a un momento decisivo del genocidio, con scelte imminenti da parte dei protagonisti che potrebbero segnare il futuro sia del regime criminale di Netanyahu sia, soprattutto, di Hamas e della martoriata popolazione della striscia di Gaza.

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