Le elezioni di metà mandato nelle Filippine hanno insolitamente focalizzato l’interesse di stampa e osservatori internazionali per via di implicazioni esplosive in materia di politica estera, soprattutto in relazione allo scontro tra Cina e Stati Uniti in Asia orientale. Il voto di lunedì prevedeva il rinnovo di tutte le amministrazioni locali, della camera bassa del parlamento di Manila e della metà dei seggi del Senato. Per molti, la consultazione rappresentava una sorta di referendum sulla scelta tra i due più importanti clan politici del paese-arcipelago – Marcos e Duterte – a loro volta riconducibili a orientamenti favorevoli rispettivamente a Washington e a Pechino.

L’attuale presidente, Ferdinand Marcos jr., figlio dell’omonimo dittatore filippino al potere fino al 1986, era stato eletto nel 2022 grazie all’alleanza stipulata proprio con la famiglia Duterte. Questa alleanza era stata suggellata dalla candidatura a vice-presidente di Sara Durerte, figlia del presidente uscente, Rodrigo. Quest’ultimo, durante il suo mandato, aveva privilegiato le relazioni con la Cina, riflettendo i crescenti rapporti commerciali e non solo tra i due paesi, ed era spesso entrato in conflitto con il governo americano, ex potenza coloniale e tradizionale alleato delle Filippine.

Prima del voto del 2022, tutto faceva pensare che l’amministrazione Marcos avrebbe proseguito sulla strada di Duterte in politica estera, ma, subito dopo il suo insediamento e dietro le pressioni degli Stati Uniti, il nuovo presidente aveva operato invece una svolta drastica allineando il paese agli interessi strategici americani, ovvero schierando le Filippine a fianco di Washington nel crescente conflitto con Pechino. Queste dinamiche hanno prodotto pericolose tensioni nella politica e nella società filippine, causando in primo luogo una rottura tra i Marcos e i Duterte, intensificate poi dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump e dalle incertezze in ambito economico e geopolitico che il presidente repubblicano sta alimentando.

Da mesi, di conseguenza, il conflitto politico nelle Filippine è aumentato e le manifestazioni più clamorose sono stati i casi riguardanti i due esponenti principali del clan Duterte. Uno è l’impeachment della vice-presidente Sara Duterte, la cui sorte sarà decisa dal nuovo Senato, e l’altro l’arresto su mandato del Tribunale Penale Internazionale del padre, Rodrigo, per i crimini commessi durante il suo mandato alla guida del paese e, in precedenza, come sindaco di Davao nella brutale guerra scatenata contro il traffico di droga. Il radicalizzarsi dello scontro politico si è accompagnato all’aggravarsi delle tensioni tra Manila e Pechino, soprattutto con il ripetersi di incidenti navali nel quadro delle contese territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale.

A infiammare la competizione tra Cina e Stati Uniti nelle Filippine è stata in particolare la partnership militare sempre più stretta promossa dalle amministrazioni Marcos e Biden. In seguito a vari accordi firmati tra i due paesi, le forze armate americane hanno riottenuto l’accesso ad alcune basi filippine strategicamente cruciali in caso di conflitto aperto, non da ultimo per via della vicinanza all’isola di Taiwan. La collaborazione in questo ambito ha messo le Filippine in prima linea in una guerra con la Repubblica Popolare e, sul fronte domestico, ha appunto fatto esplodere lo scontro politico, talvolta sfociato in episodi sanguinosi.

I Marcos e i Duterte sono espressione di diverse sezioni della classe dirigente filippina. La prima radicata negli ambienti delle élites tradizionali, soprattutto nella capitale, con legami agli Stati Uniti fin dai tempi del periodo coloniale; la seconda riferibile invece alla provincia e unita nel risentimento verso il potere centrale per via dell’inadeguatezza e il sottosviluppo cronico delle aree periferiche. In questa prospettiva vanno interpretate le istanze di apertura alla Cina e alle opportunità di crescita e sviluppo offerte dal vicino. Una tendenza inaugurata almeno a partire dalla presidenza di Gloria Macapagal Arroyo (2004-2010), poi interrotta da quella di Benigno Aquino III (2010-2016) e, come già spiegato, rilanciata da Rodrigo Duterte.

Questa dicotomia si riflette nei risultati del voto di lunedì, con la vittoria a valanga dell’ex presidente Duterte nelle elezioni per la carica di sindaco di Davao. Nonostante sia detenuto in una cella a L’Aia, Duterte ha stravinto nella roccaforte del suo clan politico-famigliare, così come si è assicurato l’elezione a vice-sindaco il figlio, Sebastian, che farà molto probabilmente le veci del padre nella città delle Filippine del sud. Due fedelissimi di Duterte sono stati poi tra i candidati al Senato con i maggiori consensi: Christopher “Bong” Go e Ronald “Bato” dela Rosa.

In palio c’erano dodici seggi del Senato – su 24 totali – assegnati, tramite un voto su base nazionale, ai candidati con il maggior numero di consensi. Gli alleati del presidente Marcos sembravano essere in grado di conquistare la maggior parte dei seggi, ma, secondo i dati non ancora definitivi, se ne sarebbero aggiudicati solo sei. Tra i cinque candidati con più voti, appena uno è riconducibile al campo presidenziale, Erwin Tulfo. Almeno cinque seggi sono andati invece allo schieramento di Duterte, compresa la sorella maggiore dell’attuale presidente, Imee Marcos, passata recentemente al clan rivale del fratello.

Gli equilibri che usciranno dal nuovo Senato saranno determinanti per l’esito dello scontro politico in atto. Il procedimento di impeachment di Sara Duterte, incriminata per avere minacciato di fare assassinare il presidente Marcos, si terrà appunto nella camera alta del parlamento e per un’eventuale condanna sarà necessaria una maggioranza di due terzi. Se ciò accadesse, Sara Duterte sarà rimossa dal suo incarico e, soprattutto, non potrà candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. I risultati finora diffusi del voto di lunedì indicano che gli alleati di Marcos non riusciranno a raggiungere una maggioranza di due terzi al Senato. Oltretutto, le alleanze risultano altamente instabili e un cambiamento degli equilibri politici a favore del clan Duterte potrebbe spostare altri senatori dall’uno all’altro schieramento.

Con l’assestamento del quadro politico filippino potrebbero esserci così aggiustamenti degli indirizzi di politica estera del paese del sud-est asiatico, anche e soprattutto in relazione alle iniziative future della Casa Bianca. L’amministrazione Trump ha dato per ora segnali di continuità sul piano delle relazioni militari e strategiche. Tuttavia, ci sono questioni irrisolte che gravano sul futuro delle Filippine e che agiscono da elemento destabilizzante, come le politiche migratorie ultra-aggressive del presidente americano. Negli USA vive una nutrita comunità filippina e il possibile aumento dei rimpatri forzati causerebbe seri danni economici al loro paese di origine. Un altro punto caldo è quello dei dazi sulle esportazioni filippine verso gli Stati Uniti, per il momento in sospeso ma tutt’altro che risolto.

Per quanto riguarda ancora il voto di metà mandato di lunedì, alcuni altri elementi meritano almeno una citazione. Il risultato positivo della fazione che fa capo alla famiglia Duterte è dovuto anche a una campagna elettorale impostata su toni populisti, concretizzati in primo luogo nella denuncia del governo per non avere fatto nulla contro il sensibile aumento dell’inflazione. Queste elezioni hanno infine registrato un certo recupero del Partito Liberale della famiglia Aquino, i cui candidati hanno anch’essi attaccato Marcos per il fallimento delle politiche economiche del governo.

Dopo che il Partito Liberale era stato quasi decimato nelle precedenti elezioni, la rinascita di questa settimana indica l’emergere di frustrazioni crescenti tra gli elettori per il monopolio delle dinastie Marcos e Duterte, nonché per le tendenze autoritarie di entrambe. I liberali e la famiglia Aquino sono stati a lungo considerati la “nemesi” dei Marcos, ma sono anch’essi espressione di una determinata sezione delle classi privilegiate filippine. Inoltre, come il presidente in carica, il Partito Liberale è tradizionalmente legato a Washington e, negli ultimi due decenni, ha puntualmente assecondato gli interessi degli Stati Uniti in funzione anticinese.

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