L’inizio dei negoziati diretti tra Ucraina e Russia ad Istambul non pare discostarsi da quello che era un copione previsto. Tra annunci e rifiuti, delegazioni più o meno gradite, assistiamo ancora alle performance del guitto di Kiev. Da sconfittosi atteggia a vincitore e sogna d’imporre agenda, luogo e presenze. Soprattutto convoca senza essere stato convocato e pretende di decidere senza poter decidere nulla. Poi si spengono le telecamere e la realtà procede a passi forti sui piedi delle fantasie politiche.

Lo stato dei negoziati tra Russia e Nato è al punto nel quale era ipotizzabile fossero alla prima riunione appena operativa. Di buono c’è la decisione di liberare reciprocamente mille prigionieri di guerra e scambiarseli come primo segnale di disgelo. Si può obiettare che lo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina c’è sempre stato ed è vero, ma non in questa dimensione e non legato al dialogo. Si può insomma definire questa decisione un cadeau di benvenuto, che sebbene incida poco sulle dinamiche della guerra, certamente ben depone per la costruzione di una possibile descalation sullo sfondo.

Quanto alla sostanza delle trattative, vanno ricordate alcune cose. La riunione di Istambul è stata possibile solo perché Putin, il 9 Maggio scorso, ha reiterato all’Occidente l’invito a tornare al tavolo dal quale si era alzato tre anni fa e a ripartire proprio da dove si era fermata la discussione dietro ordine di Biden riferito da Johnson. Che poi Zelensky abbia tentato di approfittarne per far vedere che era lui a offrire a Putin di sedersi a trattare o che definisca insufficiente per peso specifico la delegazione russa (di molto superiore a quella ucraina) fa parte del circo mediatico in cui il pagliaccio di Kiev è solito esibirsi in forza della complicità mediatica occidentale che segue gli ordini di scuderia provenienti da Londra.

Al netto della propaganda, si è assistito alla declamazione dei reciproci obiettivi ma con una sostanziale differenza: c’è l’Ucraina, che cerca di mitigare fino al paradosso la sconfitta e c’è la Russia, che ricorda a tutti di essere la vincitrice. E che il chi, il dove, il come e il quando di un negoziato lo stabilisce chi ha vinto e non chi ha perso.

Sebbene poco pubblicizzati vi sono due nodi da affrontare in premessa, se si vuole un negoziato che possa giungere ad una “pace seria e duratura” come amano ripetere gli europei che non possono dire apertamente che vogliono una sorta di guerra permanente tra il Caucaso e la zona asiatica dell’ex URSS. Sono di ordine giuridico e costituzionale e riguardano entrambi l’Ucraina, che soffre di due freni oggettivi anche solo alla partecipazione: il primo è una legge fatta approvare da Zelensky, che proibisce ogni dialogo con la Russia; il secondo è costituzionale, con il presidente non più legittimamente in funzione perché il suo mandato è scaduto da un anno. Di conseguenza la sua firma, sotto qualunque atto o trattato internazionale, potrebbe un domani essere facilmente non riconosciuta per due diversi vizi di legittimità dagli organi costituzionali o dai prossimi governanti ucraini.

Lungi dall’essere aspetti tecnici facilmente superabili, investono in pieno sia la legittimità di Zelensky sia l’architettura legislativa che ne dovrebbe consentire la partecipazione ed, eventualmente, le conclusioni, quali esse siano. Riguarda quindi la sostanza politica del regime ucraniano e la sua autorevolezza al tavolo dei negoziati.

Nel merito dei colloqui poco interessano a Mosca le proposte sulle tregue a prescindere dai colloqui. Ovvio che la Russia non accetterà una sospensione dei combattimenti allo scopo di rinforzare logistica e armamenti di Kiev, già il solo pensarlo spiega come la propaganda obnubili la realtà. E non c’è, al Cremlino, l’idea di continuare per anni questa campagna.

Se non si raggiungesse un accordo ci sarebbe la continuazione della guerra con un possibile ulteriore ampliamento della penetrazione russa in Ucraina. Soprattutto aumenterebbe il rischio di una mutazione dell’operazione militare speciale, ovvero  un cambio delle regole d’ingaggio russe nel conflitto, con una possibile escalation verso una guerra non più di posizionamento ma distruttiva, con l’azzeramento delle infrastrutture generali del Paese. Si passerebbe da una operazione militare destinata a costruire le condizioni per una trattativa politica ad una guerra tesa a distruggere il paese per provocarne la resa senza condizioni.

Conforta il realismo che alberga nelle teste dei militari occidentali, decisamente maggiore di quello che abita nei cervelli dei politici e nella loro sfrenata ambizione quando tanto si tratta di metterci le vite ed i beni degli altri, non certo le loro.

I cosiddetti volenterosi appaiono per quello che sono: un tentativo di guadagnare un po’ di fama e di obbedire ai fondi che controllano le rispettive economie e che vedono nella ricostruzione dell’Ucraina l’affare del secolo. La Ue intuisce che saranno gli USA a mettere le mani sulle risorse del paese e che continueranno ad etero-governarlo da remoto e la questione riveste importanza primaria. E siccome per avere presenza nella ricostruzione la si deve avere nel ciclo conclusivo della guerra, gli europei rischiano di essersi suicidati senza avere più una politica energetica e commerciale e nemmeno i contratti della ricostruzione e l’autorità politica per decidere il futuro assetto dell’Ucraina.

Le prossime ore, con l’annunciata telefonata tra Putin e Trump diranno qualcosa in più sul negoziato. Ma in attesa di entrare nel merito degli stessi, c’è da risolvere una fondamentale premessa: davvero la NATO ha deciso di chiudere la guerra in Ucraina? Davvero esiste una linea politica unica, nonostante le evidenti differenze tra Usa e Ue e persino all’interno della UE, tra “volenterosi” e no?

Perché alla fine di questo si tratta, cioè di come porre fine ad una avventura militare e politica dell’Occidente collettivo che dai primi anni 2000 e, con maggior forza dal 2014, tramite colpo di stato, aveva deciso di utilizzare l’Ucraina come testa d’ariete per lo sfondamento della Russia. L’idea era di costringere Mosca alla guerra per poi impantanarla e sconfiggerla sia militarmente che attraverso la leva economica e l’isolamento internazionale, contando persino sul distanziamento della Cina che avrebbe preferito allontanarsi da Mosca che rompere con l’Occidente.

Il piano, come si sa, è miseramente fallito. Sul terreno la Russia ha dimostrato di essere superiore anche sotto il profilo della tecnologia militare, portando allo scoperto il ritardo della NATO  e, con esso, è finita una volta e per sempre l’idea di poter allargare ad Est la presenza atlantista. A questo si aggiunge la crisi del pensiero globalista che non coglie sia la portata sempre maggiore dell’alternativa politica ed economica multipolare a livello globale, come pure, di concerto, la debolezza dell’economia statunitense che non è più in grado di mantenere aperti più fronti di guerra. Dunque ci si trova di fronte ad un negoziato che ufficialmente riguarda la guerra in Ucraina ma che, sotto al tavolo, ha la questione strategica del post '89: la fine dell’espansione del dominio politico e militare occidentale ad Est, la rottura dell’offensiva che avrebbe dovuto condurre allo smembramento della Federazione russa, del suo accordo di partenariato strategico con la Cina e l’apertura verso l’Asia della rete occidentale a guida USA.

D’altra parte, la Russia ha dimostrato come sia stata non solo in grado di sconfiggere militarmente la NATO ma anche di estendere la sua influenza politica ed economica attraverso i BRICS, consolidare ed accrescere l’intensità degli accordi in ambito SCO ed ampliare la sua rete di protezione e influenza verso l’Asia attraverso l’accordo strategico con l’Iran, del quale si parla poco proprio perché mette il sigillo del fallimento sulla operazione NATO.

C’è poi un ulteriore effetto di questa sconfitta strategica che riguarda la solidità e il peso politico dell’Unione Europea, la cui unità è minata e la cui credibilità come soggetto “forte” è rimasta sotto le macerie di Kiev. Incapace di consentire la vittoria all’Ucraina  sta cercando di favorire il proseguimento della guerra, nella speranza di poter in un contesto bellico provare a giuocare un ruolo continuando a stare sul ponte di comando politico di Kiev ma nelle retrovie ucraine da un punto di vista militare causa impossibilità di misurarsi con la Russia. Non può vincere una guerra ma può cercare di impedirne la fine, questa sembra essere la strategia di Londra con Bruxelles in obbedienza. Ma la verità è che la UE è oggi un cadavere politico. Non è stata in grado di piegare la Russia con le sue sanzioni, di isolarla diplomaticamente e di colpirla politicamente. Si è invece suicidata arrivando alla totale irrilevanza politica ed a una disastrosa situazione economica causa il riflesso su se stessa delle sue ridicole sanzioni che sembra voler continuare a minacciare in sprezzo del ridicolo.

Sotto, sopra, davanti e dietro a quel tavolo ad Istambul c’è insomma una delle più grosse partite geopolitiche degli ultimi 40 anni, decisiva per gli assetti strategici e per la determinazione del modello di Ordine Mondiale. Che, alla fine, era ed è la vera posta in gioco.

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