La decisione del neo-cancelliere tedesco, Friedrich Merz, di autorizzare il regime di Zelensky a lanciare missili forniti dall’Occidente in profondità nel territorio russo conferma che tra i governi europei continua a persistere la fantasia di potere invertire le sorti della guerra in Ucraina e dettare le condizioni della pace al Cremlino. Questa notizia è stata accolta con gli ormai noti avvertimenti da parte di Mosca circa i “pericoli” di un ulteriore coinvolgimento nel conflitto della Germania o di altri sponsor di Kiev. Soprattutto, i segnali che arrivano in questi giorni prospettano complicazioni nel già difficoltoso processo diplomatico appena iniziato. Come è accaduto ad esempio con il recente commento senza senso di Donald Trump sul presidente russo Putin e la massiccia operazione militare ordinata nel fine settimana in Ucraina.

Lungo raggio sì; Taurus forse

Merz è intervenuto lunedì all’EuropaForum per ribadire il solito impegno a sostenere Zelensky per poi aggiungere che, presumibilmente dal momento in cui stava parlando, “non ci sono più restrizioni in termini di gittata per le armi fornite all’Ucraina”. Ciò vale, secondo l’ex manager di BlackRock, per quelle fornite da Berlino, ma anche per quelle britanniche, francesi e americane. Si tratterebbe per Merz di esigenze difensive. Le forze di Kiev non sono infatti in grado di difendersi “efficacemente” dagli attacchi russi, poiché hanno la possibilità solo di colpire obiettivi entro i propri confini, ovvero nelle province passate alla Russia dopo i referendum del settembre 2022.

La presa di posizione del capo del governo tedesco ha subito riaperto la discussione sull’eventualità del trasferimento all’Ucraina dei missili a lungo raggio Taurus. Merz aveva appoggiato questa ipotesi in campagna elettorale, mentre l’ex cancelliere socialdemocratico, Olaf Scholz, si era invece sempre opposto, per il timore che il via libera alla fornitura di questi ordigni a Kiev avrebbe alzato pericolosamente il livello di coinvolgimento della Germania nella guerra, con le conseguenti possibili reazioni da parte russa. I Taurus hanno un raggio di 500 km e potrebbero perciò raggiungere obiettivi ben dentro i confini russi, potenzialmente anche la capitale.

Pur senza aggiungere nuovi elementi alla questione, Merz ha spiegato che Berlino starebbe discutendo “attivamente” del trasferimento di Taurus a Kiev con i governi di Francia e Regno Unito. Mosca ha correttamente giudicato le dichiarazioni di Merz come un tentativo di boicottare i negoziati per una soluzione diplomatica della guerra, per poi ricordare la pericolosità della decisione che potrebbe prendere la Germania. Mentre l’Ucraina già conduce operazioni dentro i confini russi, quasi sempre colpendo indiscriminatamente obiettivi civili, il via libera ai Taurus implicherebbe l’uso di un’arma (relativamente) più efficace e, soprattutto, l’ingresso diretto della Germania nel conflitto, visto che sarebbe necessario l’impiego di personale militare tedesco per provvedere al lancio di questi missili.

“Pazzia” e diplomazia

A fare il gioco dei falchi, consapevolmente o meno, è stato lo stesso Trump quando lunedì ha affermato, prima in un post sul suo “social” Truth e poi di persona parlando alla stampa, che Putin “è diventato completamente pazzo”, riferendosi all’ordine di attaccare, a suo dire “senza ragione”, con missili e droni il territorio ucraino nei giorni precedenti. L’uscita del presidente americano, anche se poco sorprendente, è un passo falso evidente in funzione dei negoziati in corso e serve solo ad alimentare in Occidente i sentimenti anti-russi, che vorrebbero il Cremlino totalmente ostile a qualsiasi proposta di pace, finendo per ritorcersi contro la sua stessa amministrazione e complicare il processo diplomatico.

L’analista ed ex diplomatico americano residente in Russia, John Helmer, ha spiegato sul suo blog che Trump “non riesce a comprendere la sequenza di causa ed effetto” oppure non è in grado di “controllare le operazioni delle forze armate e dell’intelligence USA nella guerra contro la Russia”. In altre parole, dovrebbe essere sufficientemente chiaro che quella russa è la risposta a una settimana di incursioni con oltre mille droni da parte ucraina, in gran parte abbattuti ma in alcuni casi capaci di creare quanto meno disagi alle attività civili del paese. Soprattutto, il 20 maggio, un gruppo di velivoli senza pilota ucraini avrebbero preso di mira l’elicottero che trasportava il presidente Putin durante la sua visita nel “oblast” di confine di Kursk.

Quest’ultima notizia era stata diffusa alcuni giorni dopo dal governo di Mosca e la responsabilità dell’operazione era stata attribuita, ad esempio dal ministro degli Esteri russo Lavrov, ai paesi europei, il cui contributo in termini di intelligence sarebbe stato determinante, visto anche che la visita non era stata annunciata pubblicamente. Il Cremlino, in maniera significativa, non ha puntato il dito contro Washington a livello pubblico per non compromettere il processo di distensione con la Casa Bianca, ma le parole di Trump nei confronti di Putin rischiano precisamente di ostacolare le trattative.

Gli eventi dei giorni scorsi hanno ad ogni modo chiarito ancora una volta gli equilibri sul campo e i rischi per il regime di Kiev se non ci sarà una rapida cessazione delle ostilità. In tre giorni, la Russia ha attaccato installazioni prevalentemente militari con oltre mille droni, una sessantina di missili da crociera e più di trenta missili balistici. L’offensiva ha saturato un sistema difensivo già in affanno e messo in luce le potenzialità russe se la guerra dovesse proseguire ancora a lungo. In altre parole, se l’Ucraina e i suoi sostenitori europei dovessero restare fermi sulle posizioni attuali, senza riconoscere la realtà dei fatti, le forze del regime di Zelensky non saranno semplicemente in grado di sostenere l’escalation militare che le attende.

Una realtà, due rappresentazioni

Mentre si attende di conoscere la data e il luogo del possibile prossimo round di colloqui tra i rappresentanti di Kiev e Mosca, allo stato attuale dei fatti continuano a esserci indicazioni scoraggianti sulle prospettive diplomatiche. Zelensky, l’Europa e, a quanto pare, l’amministrazione Trump insistono nel puntare tutto sul convincere Putin ad accettare una tregua preventiva, da cui partire per discutere un accordo di pace. La Russia è disponibile al contrario a trattare, ma in assenza almeno di un’intesa preliminare su alcuni punti fondamentali non intende fermare le operazioni militari.

Dovrebbe essere abbastanza chiaro a tutte le parti coinvolte che Mosca non vuole una ripetizione dell’inganno degli accordi di Minsk e, verosimilmente con un approccio circospetto ai negoziati in corso, prosegue perciò la liberazione dei territori ancora in mano agli ucraini e con la guerra “di attrito”. Anzi, Putin ha ordinato e inaugurato in questi giorni una nuova operazione per creare una fascia di sicurezza oltre il confine con l’Ucraina, nella provincia di Sumy, così da impedire futuri attacchi nei propri territori.

Ci sono molti segnali che tutto il fronte ucraino potrebbe arrivare vicino al tracollo nei mesi estivi e questo fatto rende ancora più sconcertante l’atteggiamento di Zelensky e dei governi europei. Se, infatti, Kiev non dovesse riconoscere la perdita inevitabile di territorio attuale, come richiesto da Mosca, andrà molto probabilmente incontro a un ulteriore arretramento dei confini, o tramite la forza o con un accordo ancora più svantaggioso che dovrà per forza di cose accettare.

Il ruolo di Trump

È difficile spiegare razionalmente le fantasie dei vari Merz, Starmer, Macron, Tusk e Von der Leyen, se non col fatto che una sconfitta in Ucraina avrebbe per loro conseguenze catastrofiche sul piano politico e strategico. Posticipare la resa dei conti rischia tuttavia di peggiorare ulteriormente la situazione. Ciò in cui confidano, con ogni probabilità di comune accordo con gli ambienti “neocon” americani, è un crescendo di pressioni sull’amministrazione Trump per convincere il presidente repubblicano ad abbandonare l’impegno per una soluzione diplomatica al conflitto. Solo con il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti, si ragiona a Bruxelles, resterebbe una minima possibilità di rilanciare la guerra “per procura” contro Mosca e sperare in una sconfitta o, quanto meno, in concessioni sostanziali della Russia.

Questo pressing su Washington, anche se sembra far traballare a volte le certezze di Trump, come nel caso delle già ricordate dichiarazioni su Putin, non ha per ora dato risultati. Il governo americano continua a non volere sbloccare le forniture di armi all’Ucraina, anche se Zelensky manda ripetuti segnali di disperazione. La Casa Bianca preferisce non muoversi in questo senso per non incrinare i rapporti con Mosca in fase di ricostruzione. Anche perché Trump sostiene che quella in corso non è la sua guerra e il riavvio dei flussi di armi da Washington a Kiev smentirebbe questa tesi col rischio di vanificare i progressi fatti finora.

Anche sul lato delle sanzioni, che pure Trump ha in varie circostanze minacciato contro la Russia se non ci saranno risultati diplomatici concreti, non sembrano esserci al momento ripensamenti. Il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung ha citato lunedì un documento interno al ministero degli Esteri di Berlino nel quale si fa riferimento a profonde divergenze tra UE e Stati Uniti sull’imposizione di nuove misure punitive nei confronti di Mosca. Bruxelles vorrebbe intensificare le sanzioni, ma Washington comprende benissimo che la mossa non punta tanto a fare pressioni sul Cremlino per ottenere concessioni al tavolo dei negoziati, bensì a far saltare del tutto le trattative.

Un articolo di Bloomberg, a sua volta, rivela come gli USA siano diventati quasi del tutto passivi all’interno dei gruppi di lavoro transatlantici preposti all’implementazione delle sanzioni esistenti. I pacchetti che l’Europa starebbe già studiando per colpire la Russia, o più correttamente gli stessi paesi membri, non trovano sostegno a Washington e anche al proprio interno starebbero crescendo le divisioni. Sia sul piano militare sia su quello delle sanzioni, quindi, il ruolo dell’America resta decisivo. Senza un riallineamento sull’Ucraina tra UE e Stati Uniti, le iniziative della prima risulteranno sterili e controproducenti. In attesa di un bagno di realismo della classe dirigente europea, la strada più breve e sicura verso la fine della guerra resta perciò la prosecuzione delle operazioni militari russe e l’inevitabile resa o sconfitta sul campo del regime di Zelensky.

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