La sentenza emessa mercoledì contro l’amministrazione Trump da un tribunale federale americano non risolve con ogni probabilità la crisi scatenata dall’imposizione a tappeto di dazi contro decine di paesi da parte del presidente repubblicano. Il fatto che il ricorso a questo strumento sia stato giudicato illegale e le vicissitudini giudiziarie che seguiranno nei prossimi mesi potrebbero tuttavia spuntare l’arma della minaccia di applicare tariffe doganali punitive per ottenere alcuni degli obiettivi – commerciali e non – della Casa Bianca. Per il momento, mercati, borse e aziende di tutto il mondo hanno tirato un sospiro di sollievo, in attesa del prossimo capitolo di una vicenda che sta pericolosamente sconvolgendo i meccanismi economici e commerciali consolidati.

Il Tribunale USA per il Commercio Internazionale (CIT) ha stabilito, con un verdetto preso all’unanimità dai tre giudici che lo compongono, che i decreti coi quali Trump ha introdotto una serie di dazi sulle importazioni di beni non rientrano nei poteri presidenziali. Il giudizio riguarda quelle misure implementate sulla base di una legge del 1977 (“International Emergency Economic Powers Act” o IEEPA) che attribuisce questa autorità al presidente in presenza di una minaccia “insolita e straordinaria” o di un’emergenza nazionale.

Le parti che avevano presentato ricorso contro la Casa Bianca, un gruppo di piccole imprese americane e dodici stati dell’Unione, sostenevano che, al contrario di quanto affermato da Trump, né il traffico di oppiodi né il passivo della bilancia commerciale USA possono essere considerate “emergenze nazionali” e, in quanto tali, rappresentare giustificazioni per imporre dazi. Gli Stati Uniti, d’altra parte, fanno segnare un deficit commerciale con il resto del mondo da quasi mezzo secolo. Decisioni simili in materia commerciale spettano al Congresso. I tre giudici del tribunale, di cui uno nominato dallo stesso Trump, hanno accolto questa tesi e ordinato al presidente di emettere dei nuovi decreti entro dieci giorni per rescindere i dazi imposti o sospesi.

La risposta della Casa Bianca alla sentenza è consistita in un nuovo attacco contro la magistratura e il ruolo costituzionale di quest’ultima nel quadro della separazione dei poteri. Il portavoce del presidente, Kush Desai, ha tipicamente affermato che “non spetta a giudici non eletti decidere come affrontare in maniera appropriata un’emergenza nazionale”. In altre parole, per l’aspirante dittatore alla Casa Bianca la legge non si deve applicare. Questa tesi è già stata esplicitata decine di volte nei primi mesi del secondo mandato di Trump, in particolare a proposito delle iniziative ultra-repressive legate alla guerra contro l’immigrazione.

Proprio alla luce di questi precedenti, non è da escludere che Trump ignori completamente anche la sentenza del CIT. Intanto, i legali della Casa Bianca hanno già presentato ricorso davanti alla corte d’appello del circuito federale di Washington ed è possibile che il caso verrà alla fine deciso dalla Corte Suprema, dove l’attitudine verso la deriva autoritaria in corso è apparsa per ora contraddittoria, anche se tendente ad assecondare le manovre del presidente.

All’arma dei dazi o alla sola minaccia di essi, come già accennato, Trump ha fatto ricorso ampiamente, per cercare, almeno nelle intenzioni, di riequilibrare la bilancia commerciale americana e rilanciare l’industria manifatturiera domestica rendendo più costosi i beni di importazione. Più spesso, la prospettiva di tariffe doganali a raffica è sembrata essere una tattica negoziale per convincere, sotto minaccia, i partner commerciali ad accettare accordi più vantaggiosi per gli Stati Uniti. Oppure, in un risvolto poco discusso dalla stampa ufficiale, con l’intento di ottenere dai propri interlocutori un impegno a escludere o limitare l’influenza cinese su di essi.

La sentenza di mercoledì dovrebbe quindi annullare gli “ordini esecutivi” di Trump che imponevano dazi del 25% sulle importazioni da Messico e Canada e del 20% su quelle dalla Cina. Allo stesso modo, risultano illegali i dazi del 10% applicati a praticamente tutti i partner commerciali degli USA, così come le misure di ritorsione tra il 20% e il 50% decise per quei paesi che applicano provvedimenti simili sulle merci americane. Queste ultime erano state messe in pausa fino al 9 luglio, in attesa della stipula di possibili accordi bilaterali. Il governo americano potrebbe addirittura essere costretto a restituire il denaro già incassato dai dazi imposti e ora dichiarati illegittimi.

Va comunque ricordato che altre tariffe doganali introdotte sulla base di leggi differenti restano comunque in vigore, perché non oggetto della causa all’attenzione del CIT. Un esempio sono i dazi sulle importazioni di acciaio, alluminio e automobili straniere, collegate alla Sezione 232 del “Trade Expansion Act” del 1962, che fa riferimento anch’esso a questioni di “sicurezza nazionale”. In questo caso, però, il processo per arrivare all’imposizione di dazi è più lungo, poiché prevede un’indagine approfondita e una finestra di tempo nella quale vengono raccolti i commenti pubblici. Trump aveva iniziato e completato questo procedimento durante il suo primo mandato e ha allargato quest’anno il campo di applicazione della legge.

L’intervento del tribunale federale con sede a New York nelle politiche commerciali della Casa Bianca aumenta come minimo la già diffusa incertezza di governi e aziende di tutto il mondo. Secondo la maggior parte di osservatori e analisti, dazi ai livelli di quelli minacciati da Trump erano insostenibili e controproducenti per l’economia americana, ma servivano comunque a fare pressioni sui partner commerciali in funzione di una qualche trattativa volta a riorganizzare gli scambi commerciali a favore di Washington. La sentenza potrebbe perciò congelare o far saltare del tutto negoziati già non esattamente frenetici, rendendo cauti anche quei paesi che hanno finora espresso la volontà di discutere di un possibile trattato bilaterale con gli USA. Al momento, solo il Regno Unito ha sottoscritto un accordo di questo genere sotto la pressione dei dazi trumpiani.

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