Mentre le trattative proseguono con cadenza più o meno regolare, le prospettive di un accordo tra Iran e Stati Uniti sul programma nucleare del primo sembrano perdere quota soprattutto per la natura ambigua e confusionaria della condotta americana. L’amministrazione Trump continua a mandare segnali contrastanti circa le proprie posizioni e richieste, con ogni probabilità in conseguenza delle divisioni interne – e non solo – tra falchi e (relative) colombe. A Teheran, si deve fare quindi i conti con un interlocutore come al solito totalmente inaffidabile, bilanciando le aperture per raggiungere un’intesa, che potrebbe dare respiro all’economia iraniana, con la riaffermazione di una serie di punti irrinunciabili, perché inscritti nei diritti della Repubblica Islamica o perché del tutto estranei alla questione del nucleare in discussione.

La settimana si era aperta con una “esclusiva”, pubblicata dal sito americano Axios, nella quale si sosteneva che la proposta di accordo consegnata dalla Casa Bianca all’Iran prevedrebbe la possibilità per quest’ultimo di mantenere il proprio programma di arricchimento dell’uranio. Secondo la bozza circolata attraverso l’inviato speciale americano, Steve Witkoff, ci sarebbero varie limitazioni, come la proibizione di costruire nuove strutture dedicate all’arricchimento e di sviluppare ricerche sulle centrifughe, ma Teheran, una volta firmato l’accordo, avrebbe potuto arricchire l’uranio al 3% per scopi civili (contro il 3,67% previsto dall’accordo del 2015 sabotato da Trump tre anni dopo) e per un periodo di tempo non ancora stabilito.

Questa indiscrezione sembrava essere l’ennesima correzione di rotta americana, visto che vari esponenti dell’amministrazione repubblicana, incluso Witkoff, il segretario di Stato Marco Rubio e lo stesso presidente, avevano in varie occasioni chiesto pubblicamente l’azzeramento del programma di arricchimento iraniano, a loro volta alternandosi ad altre dichiarazioni e notizie varie che annunciavano invece posizioni USA meno rigide sulla questione. Sempre lunedì, però, Trump è intervenuto sul suo “social” Truth per smentire la versione pubblicata da Axios. Il post più recente è sembrato rilanciare al contrario le posizioni massimaliste della Casa Bianca, con Trump che ha spiegato come, “con il nostro potenziale Accordo, non consentiremo nessun [livello] di arricchimento di uranio” all’Iran.

I continui aggiustamenti del messaggio da parte degli Stati Uniti sono completamente insensati ai fini negoziali. È chiaro infatti che i loro interlocutori risultano a dir poco spiazzati dalla mancanza di unità del messaggio che Washington intende proiettare. Si può presumere che nel corso delle discussioni mediate dall’Oman la delegazione iraniana abbia ricevuto qualche rassicurazione da parte americana, ma a Teheran cresce ugualmente e comprensibilmente l’impazienza per l’atteggiamento complessivo dell’amministrazione Trump.

Il ritorno del tema della sospensione di ogni attività di arricchimento significa infatti introdurre nella trattativa una questione che, come hanno ripetuto fino alla nausea gli iraniani, farà saltare definitivamente i negoziati. La Repubblica Islamica, in quanto firmataria del Trattato di Non Proliferazione, ha tutto il diritto a sviluppare e operare un programma nucleare a scopi civili. Il livello di investimento in termini umani ed economici in questo programma, oltretutto in molte occasioni bersaglio di attentati terroristici organizzati da Israele e dall’Occidente, fa poi in modo che non ci sia nessuna sezione della classe dirigente iraniana disposta a rinunciarvi. Va anche ricordato che Teheran non può non mostrare irritazione nei confronti di diktat così stringenti quando lo stato ebraico, impegnato nel genocidio palestinese, dispone invece indisturbato di un numero indefinito di armi nucleari non dichiarate e grazie alla protezione americana.

È difficile dunque comprendere il motivo per cui la Casa Bianca insista nel mandare messaggi a livello pubblico sull’azzeramento del programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran, essendo appunto la questione un vero e proprio “deal-breaker”. La ragione più ovvia è che Trump non desideri realmente un accordo, ma utilizzi il teatrino della diplomazia per creare un casus belli, ovvero per giustificare un eventuale attacco militare contro le infrastrutture nucleari iraniane con il rifiuto del governo di questo paese di accettare una soluzione negoziata. Un’escalation, quest’ultima, che non sarebbe peraltro strettamente legata alla questione nucleare, bensì al tentativo di tagliare i rapporti tra l’Iran e i suoi alleati della Resistenza in Medio Oriente e a smantellare il programma missilistico del paese. In una parola, per indebolire la posizione iraniana nella regione a vantaggio del fronte filo-americano.

Molti osservatori ritengono piuttosto che l’atteggiamento americano risponda alla necessità di allentare le pressioni di coloro che chiedono il pugno di ferro con l’Iran, sia dentro l’apparato di potere negli USA sia in Israele. Proprio riguardo a quest’ultimo, nelle ultime settimane si sono succedute notizie e “rivelazioni” su un gioco delle parti tra Washington e Tel Aviv, con Trump presumibilmente impegnato a tenere a bada Netanyahu e permettere che la diplomazia faccia il suo corso. Altri ancora pensano a una tattica negoziale, tipica di Trump, basata sull’illusione di giocare da una posizione di forza e potere dettare condizioni a piacimento ai propri interlocutori.

Fin dall’inizio dei colloqui, c’è come minimo il sospetto che l’amministrazione repubblicana stia negoziando in malafede. Questo atteggiamento è nel DNA stesso degli Stati Uniti, basti pensare, solo per citare l’esempio più recente, alla trappola tesa a Hamas nel quadro della liberazione da Gaza del soldato israeliano con passaporto americano, Edan Alexander. Resta però il fatto che, anche dando credito alle intenzioni ufficiali della Casa Bianca, cioè impedire che l’Iran ottenga armi atomiche, una strategia che faccia saltare le trattative e favorisca una soluzione militare comporta rischi enormi, in primo luogo proprio per USA e Israele, e l’opzione bellica spingerebbe quasi certamente la Repubblica Islamica verso la trasformazione del proprio programma nucleare da solo civile a militare.

Le pressioni di Trump potrebbero essere collegate anche all’evoluzione, anzi involuzione, delle posizioni europee. I tre paesi coinvolti nelle trattative dell’accordo del 2015 (JCPOA) – Francia, Germania, Regno Unito – vedendosi di fatto esclusi dalle discussioni in corso tra Washington e Teheran, nonché messi in un angolo anche sulla crisi ucraina, hanno da qualche tempo assunto un atteggiamento più rigido verso l’Iran. Questi governi minacciano in particolare il ricorso a un meccanismo previsto dallo stesso accordo di Vienna e che consente a uno dei firmatari di esso, ad eccezione degli USA che lo hanno abbandonato unilateralmente, di riattivare le sanzioni ONU sospese un decennio fa se l’Iran fosse considerato in violazione del JCPOA. Il termine ultimo per attivare questo dispositivo, non sottoposto a veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, è il prossimo ottobre e Trump potrebbe appunto fare leva anche sulle minacce europee per convincere il governo iraniano ad accettare un accordo sbilanciato a favore degli interessi americani e israeliani.

Vari giornali in Occidente hanno riportato nelle scorse ore notizie a tratti contraddittorie, a conferma della confusione che caratterizza in primo luogo l’amministrazione Trump. Il New York Times aveva ad esempio smentito la prima versione della già citata rivelazione di Axios, sostenendo che la Casa Bianca aveva “proposto” a Teheran la totale e immediata cessazione delle attività di arricchimento dell’uranio. La Reuters aveva confermato quanto scritto dal Times, per poi aggiungere che, inevitabilmente, il governo iraniano avrebbe deciso di respingere il documento americano. Oltre alla questione dell’arricchimento, vi era anche il problema dell’assenza di un percorso chiaro verso la cancellazione delle sanzioni. Sempre il New York Times, martedì ha infine riportato un ulteriore versione dei fatti, questa volta con una soluzione di compromesso allo studio, che permetterebbe all’Iran di continuare ad arricchire l’uranio a un livello basso mentre Washington e altri paesi studiano un piano più dettagliato che blocchi la strada verso il nucleare militare ma consenta a Teheran di alimentare le proprie centrali nucleari.

Non è sorprendente, vista la situazione, che lunedì il ministero degli Esteri iraniano abbia chiesto spiegazioni in via ufficiale agli Stati Uniti su come intenderanno procedere proprio sulla questione della “fine reale delle sanzioni”. In una conferenza stampa, il portavoce del ministero è anche tornato a criticare il recente rapporto dell’agenzia ONU per il nucleare (AIEA), che denunciava la Repubblica Islamica per avere incrementato la produzione di uranio arricchito al 60%, non lontano quindi dal livello ritenuto necessario per l’utilizzo a scopi militari (90%). Il rapporto AIEA, basato quasi certamente su informazioni fornite da Israele, arriva come minimo in un momento inopportuno e conferma come l’agenzia nominalmente indipendente delle Nazioni Unite continui ad agire con obiettivi politici.

Nel fine settimana è circolata peraltro anche una notizia di registro opposto. Il Wall Street Journal ha citato fonti della Casa Bianca per rivelare che l’amministrazione repubblicana avrebbe ordinato una “pausa” dalle politiche di “massima pressione” sull’Iran. Il riferimento è all’insieme di iniziative per colpire economicamente Teheran e, in particolare, limitarne le esportazioni di petrolio. La direttiva sospenderebbe appunto nuove sanzioni da adottare nei confronti della Repubblica Islamica, verosimilmente per non avvelenare ancora di più il clima durante i negoziati. Nulla viene invece spiegato in merito all’implementazione dei provvedimenti già in vigore.

L’ultimo round di negoziati tra USA e Iran è avvenuto a Roma il 23 maggio scorso e le reazioni seguite all’incontro presso la sede dell’ambasciata omanita erano state da entrambe le parti relativamente ottimistiche. L’auspicio espresso era di arrivare a qualche risultato concreto nel corso dei prossimi vertici. La sensazione nettissima è che ciò dipenderà in larga misura dalle decisioni che verranno prese a Washington. L’Iran, da parte sua, ha mostrato in più occasioni di essere disposto a concessioni anche importanti, come l’accettazione, una volta siglato un accordo, di ispettori americani sul proprio territorio nel quadro delle missioni AIEA. Oppure, la creazione di un “consorzio regionale” per l’arricchimento dell’uranio con il coinvolgimento di attori arabi, alleati degli Stati Uniti, che garantirebbero l’uso a scopo civile e, insieme, beneficerebbero dei progressi tecnologici iraniani in questo ambito.

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