Al termine di due giorni di discussioni a Londra, le delegazioni di alto livello di Cina e Stati Uniti avrebbero trovato un accordo sul ripristino del meccanismo di “consenso”, sottoscritto a Ginevra lo scorso mese di maggio, per evitare un’escalation immediata della guerra commerciale tra le prime due potenze economiche del pianeta. Non sembrano esserci però garanzie circa la tenuta dell’intesa e le difficoltà appaiono chiare già dal fatto che il vertice di due giorni nella capitale britannica aveva come obiettivo soltanto quello di concordare l’implementazione di un accordo in teoria già raggiunto nelle scorse settimane. L’amministrazione Trump non ha in ogni caso alcuna intenzione di allentare la presa su Pechino, viste le implicazioni strategiche e militari dell’offensiva anti-cinese in atto, e l’inevitabile fallimento dei tentativi di contenere la “minaccia” della Repubblica Popolare determinerà probabilmente la scelta di altre opzioni nel prossimo futuro, a cominciare da quella militare.

Dopo essersi accordati a Ginevra e poco prima della data prevista per allentare le misure punitive prese da entrambi i governi sul fronte commerciale, la Casa Bianca aveva proceduto con l’imporre nuove restrizioni all’export verso la Cina di componenti tecnologici d’avanguardia e minacciato di rifiutare visti d’ingresso agli studenti cinesi. Pechino aveva allora congelato la sospensione delle limitazioni alla vendita in America delle terre rare. La riesplosione dello scontro era stata così inevitabile, fino a che una lunga telefonata tra Trump e il presidente cinese, Xi Jinping, la scorsa settimana aveva favorito la momentanea distensione e l’incontro di questa settimana a Londra.

La “pausa” di 90 giorni relativamente all’applicazione di misure daziarie e non è stata così ristabilita, anche se le discussioni proseguiranno a un livello più basso per definire alcuni dettagli. Soprattutto, poi, la volatilità della situazione non esclude ulteriori ostacoli già nei prossimi giorni. Questa tregua temporanea era stata preceduta da una raffica di dazi e contro-dazi, con quelli imposti dalla Casa Bianca alle importazioni dalla Cina arrivati addirittura al 145%. Dopo gli effetti indesiderati che queste misure avevano provocato per la stessa tenuta finanziaria americana, il presidente repubblicano aveva appunto corretto il tiro e, in seguito ai colloqui di Ginevra, i dazi erano scesi al 30%, mentre Pechino aveva acconsentito a sua volta ad abbassarli al 10%.

La delegazione americana impegnata a Londra lunedì e martedì, guidata dal segretario al Tesoro Scott Bessent, al termine dei lavori è subito rientrata a Washington per sottoporre l’accordo al presidente Trump. Sui contenuti specifici delle discussioni e di quanto concordato non sono trapelate notizie. Mentre il vertice era in corso, il numero uno del Consiglio Economico Nazionale della Casa Bianca, Kevin Hassett, aveva però anticipato l’allentamento delle restrizioni alle esportazioni da entrambe le parti. Tuttavia, a suo dire non era nemmeno sul tavolo la questione dello sblocco della vendita alla Cina dei modelli di “chip” più avanzati prodotti dalla compagnia americana Nvidia. Gli Stati Uniti erano invece disponibili a trattare sui “semi-conduttori” di generazione precedente, comunque “molto importanti” per Pechino.

Malgrado l’ostentazione di ottimismo da parte dell’amministrazione Trump, qualsiasi cedimento americano sull’export dei “chip” contraddice uno degli elementi centrali delle politiche anti-cinesi, cioè il miraggio di fermare o rallentare drasticamente lo sviluppo tecnologico della Repubblica Popolare. Questo obiettivo è ritenuto appunto imprescindibile per consentire agli Stati Uniti di rimanere la potenza dominante a livello globale. Anche se questa strategia fosse applicabile, i risultati sarebbero comunque molto dubbi. In un recente intervento pubblico, il “CEO” di Nvidia, Jen-Hsun Huang, ha avvertito infatti che le “restrizioni [americane] all’export [verso Pechino] hanno incentivato l’innovazione e le produzioni di scala in Cina”.

Il fatto è che la Casa Bianca ha dovuto anche fare un passo indietro da politiche comunque inefficaci perché le decisioni di Trump hanno spinto la Cina a chiudere o limitare severamente la vendita alle compagnie e al governo USA delle terre rare. La Repubblica Popolare detiene un quasi monopolio non dei giacimenti di questi elementi, ma dell’estrazione e dei processi necessari a renderli utilizzabili e commerciabili. Dopo i dazi e le restrizioni decise da Trump, Pechino aveva introdotto vincoli all’esportazione delle terre rare sotto forma di licenze da rilasciare caso per caso dalle autorità di governo. Ciò ha rallentato la catena degli approvvigionamenti, minacciando di fermare, tra le altre, l’industria automobilistica e quella militare negli Stati Uniti.

Mercoledì, Trump ha dato la sua approvazione dell’intesa raggiunta a Londra. In un post pubblicato sul suo social personale Truth, il presidente ha scritto che l’accordo con la Cina “è fatto” e ora attende soltanto la sua ratifica formale e quella del presidente Xi. Nella sua ricostruzione come al solito semplicistica, Trump ha spiegato che le esportazioni di tutte le terre rare fornite da Pechino verranno sbloccate, mentre gli Stati Uniti daranno alla Cina quanto concordato, inclusi i visti d’ingresso agli studenti di questo paese.

Le dichiarazioni del segretario al Commercio, Howard Lutnick, sono state invece più caute e ambigue. Sulle esportazioni delle terre rare cinesi, Lutnick ha espresso l’auspicio che gli ostacoli saranno rimossi coerentemente con quanto concordato a Londra, lasciando intendere, secondo alcuni, che le due parti su questo argomento si sono più che altro accordate sulla continuazione delle trattative. Lo stesso membro dell’amministrazione Trump ha aggiunto che lo sblocco delle misure restrittive americane avverrà solo dopo che le autorità di questo paese avranno approvato le licenze in sospeso per le esportazioni di terre rare.

In sostanza, anche prendendo per buone le parole di Trump, nulla è stato risolto in via definitiva, dal momento che le ragioni ultime della guerra commerciale scatenata da Washington contro Pechino non sono risolvibili attraverso un accordo equo, bensì, dal punto di vista della Casa Bianca, solo con la sottomissione della Cina agli interessi globali americani. Gli Stati Uniti, per una serie di ragioni, non hanno tuttavia i mezzi per ottenere questo risultato con pressioni, minacce e iniziative commerciali. Per questa ragione, come accennato all’inizio, prima o poi c’è da attendersi uno spostamento deciso della strategia USA dal piano economico a quello militare.

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