L’aggressione senza giustificazioni dell’Iran da parte di Israele è stata accompagnata da dichiarazioni contrastanti provenienti da Washington, inizialmente tese a prendere le distanze dalle operazioni militari dell’alleato e in seguito di quasi ammissione della sostanziale complicità con l’entità terroristica ebraica. Queste contraddizioni rivelano forse l’intenzione dell’amministrazione Trump di conservare uno strumento di pressione sul governo della Repubblica Islamica per ottenere pesanti concessioni in vista di un possibile “accordo diplomatico”. Di certo, il regime del premier/criminale di guerra Netanyahu ha chiarito subito da parte sua che gli attacchi sono coordinati con gli Stati Uniti. Una versione, quest’ultima, quasi certamente corrispondente alla realtà e che, nelle prime fasi di un conflitto con conseguenze potenzialmente disastrose per tutto il Medio Oriente e non solo, porta Tel Aviv e Washington ad un livello di criminalità difficilmente paragonabile a qualsiasi altro precedente storico.
La premessa necessaria ad ogni considerazione sugli eventi di queste ore è che Israele è un’entità artificiale senza radici in Asia occidentale, a parte quelle mitico-religiose, e dal secondo dopoguerra ha potuto evolversi e trovare una relativa stabilità attraverso la violenza solo grazie all’assistenza economica, militare e politica degli Stati Uniti e, in seconda battuta, dei governi europei. Questa totale dipendenza da forze alleate esterne rappresenta un elemento cruciale anche nel quadro delle aggressioni scatenate negli ultimi due anni e mezzo, dal genocidio a Gaza al Libano, dallo Yemen alla Siria fino ad oggi con l’Iran.
È perciò assurdo sostenere che i bombardamenti inaugurati nelle prime ore di venerdì scorso contro la Repubblica Islamica siano stati il risultato di una decisione presa da Tel Aviv in autonomia o, addirittura, contro l’opinione americana. Questa favola, venduta nelle ultime settimane dalla propaganda dei media ufficiali, si è rivelata essere un cinico teatrino per coprire le tracce di Trump e Netanyahu dietro la farsa dei colloqui diplomatici tra USA e Iran. Se è vero che l’ultimatum di 60 giorni del presidente americano all’Iran per accettare un accordo sul nucleare ed evitare un attacco militare è scaduto in concomitanza con l’inizio dell’operazione israeliana, Washington e Teheran avevano già fissato a domenica 15 giugno la data del sesto round di negoziati. Appare dunque impensabile che Netanyahu abbia deciso di scatenare il caos senza, come minimo, il via libera di Trump.
Articoli di testate come Axios e Jerusalem Post hanno citato fonti israeliane che confermano come la Casa Bianca “fingeva di opporsi a un attacco israeliano [contro l’Iran] in pubblico”, mentre teneva un atteggiamento opposto “in privato”. Ancora, la stampa internazionale ha scritto che Trump aveva cercato di frenare Netanyahu durante una recente telefonata, quando in realtà “nella conversazione si era discusso del coordinamento dell’attacco” in preparazione, lanciato, secondo un altro funzionario israeliano, dopo avere ottenuto “la luce verde da parte degli USA”.
L’insistenza in queste settimane sulle crescenti frizioni tra Trump e Netanyahu non era altro che una campagna di disinformazione che, assieme ai negoziati con la mediazione dell’Oman, avevano come obiettivo di convincere l’Iran che la Casa Bianca era genuinamente disponibile a percorrere la strada diplomatica e non vi era perciò un rischio immediato di un’escalation militare. Che Trump avesse deciso fin dall’inizio per l’opzione militare o che l’abbia valutata solo dopo che Teheran ha rifiutato fermamente di rinunciare all’arricchimento dell’uranio ad uso civile ed altri punti fermi stabiliti durante i colloqui non è del tutto chiaro, ma la sostanza non cambia di molto. Le posizioni iraniane erano note da tempo e l’insistenza americana su questioni considerate “deal-breaker” confermano che gli Stati Uniti erano pronti a entrare in guerra contro la Repubblica Islamica attraverso il loro alleato israeliano.
In altre parole, Trump ha cercato di far credere a Teheran che il rischio di guerra era sceso sensibilmente, non solo partecipando ai negoziati sul nucleare, ma anche ad esempio liquidando dalla sua amministrazione numerosi funzionari e consiglieri considerati come “falchi” filo-sionisti. Ciò ha dato un falso senso di sicurezza alla Repubblica Islamica, il cui governo si è fatto trovare in larga misura impreparato di fronte alla prima ondata di attacchi israeliani nella notte tra giovedì e venerdì. Svariati alti ufficiali militari ed esponenti di primissimo piano del governo sono stati così assassinati, come lo storico consigliere della guida suprema e recentemente fautore di un accordo diplomatico con l’Occidente, Ali Shamkhani, mentre sono stati colpiti numerosi obiettivi militari sensibili.
La decapitazione parziale dei vertici soprattutto militari e dell’intelligence iraniani era ritenuta forse sufficiente a Tel Aviv e Washington per puntare su una resa o su una rapida destabilizzazione del sistema. La catena di comando è stata invece rapidamente ripristinata e già la notte successiva la Repubblica Islamica ha operato l’attacco più distruttivo mai subito nella sua breve storia dall’entità sionista. Altri attacchi e contrattacchi si sono ripetuti nei giorni successivi e la stessa dinamica proseguirà almeno fino a che non interverranno nuovi fattori. Dai resoconti della stampa internazionale emerge finora un bilancio di vittime e distruzione di infrastrutture più pesante per l’Iran, ma ciò può anche essere dovuto sia alla censura israeliana che cerca come sempre di minimizzare le perdite sia al fatto che la prassi di Tel Aviv è quella di colpire deliberatamente anche obiettivi civili.
USA e Israele, assieme ai governi loro alleati e alla stampa ufficiale, ripetono fino alla nausea che la necessità di procedere militarmente è legata al fatto che l’Iran debba essere fermato prima che ottenga armi nucleari. Non scalfisce poi minimamente questa narrativa fantasiosa che i loro stessi servizi di intelligence abbiano più volte confermato che non vi sono elementi per confermare attività nucleari militari da parte della Repubblica Islamica, men che meno che Israele disponga di decine di ordigni di questo genere senza che lo abbia ammesso né che sia esposto a qualche verifica o censura. Il vero obiettivo di Israele è piuttosto il cambio di regime a Teheran, con la conseguente neutralizzazione dell’Asse della Resistenza, e ciò coincide perfettamente con quello ultimo di Washington.
Non ci sono altre ragioni, oltre alla natura terroristica del regime sionista, per spiegare gli assassini mirati di personalità come Shamkhani oppure del possibile piano per uccidere addirittura la guida suprema della rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei. Alcuni giornali hanno scritto che Trump avrebbe messo il veto alla richiesta israeliana di colpire il vertice della Repubblica Islamica, ma, a parte le molto dubbie rassicurazioni di questa notizia, l’eventuale astensione di Netanyahu da un’azione simile non avrebbe a che fare con scrupoli di natura morale, viste le mostruosità già portate a termine, bensì col timore che l’assassinio di un capo di stato possa provocare ancora maggiore repulsione a livello internazionale nei confronti del suo regime genocida.
Le considerazioni di carattere militare saranno probabilmente decisive nelle prossime fasi della guerra provocata da Tel Aviv. Per il momento, Israele ha tecnicamente libertà di manovra nello spazio aereo iraniano, ma la vastità del paese aggredito e la disponibilità limitata di missili e di altri equipaggiamenti militari sia del regime sionista sia di Washington rendono necessario un “successo” in tempi brevi. La situazione militare iraniana è oggetto di intense discussioni soprattutto sui media indipendenti in questi giorni e non sempre è facile distinguere la realtà oggettiva dalle proiezioni delle speranze anti-sioniste e dalla inevitabile propaganda di guerra. Alcuni commentatori sostengono che le armi più recenti e sofisticate in dotazione dell’Iran non siano state ancora impiegate ed esse potrebbero causare maggiore distruzione in Israele se l’aggressione dovesse continuare.
Inoltre, va considerato il fatto che, in caso la situazione dovesse precipitare, Teheran difficilmente rinuncerà a giocare la carta che potrebbe causare i danni maggiori soprattutto all’Occidente, ovvero la chiusura dello stretto di Hormuz, da dove transita oltre il 20% dei traffici petroliferi globali, e la distruzione delle installazioni petrolifere dei regimi arabi del Golfo Persico, i quali non a caso hanno condannato l’aggressione israeliana. Le conseguenze economiche di iniziative simili sarebbero facilmente immaginabili. Altra questione è il bombardamento delle basi americane in Medio Oriente, obiettivi a portata di mano dei missili ipersonici iraniani anche alla luce delle modeste prestazioni in questi giorni dei sistemi contraerei di fabbricazione USA.
Quest’ultima ipotesi si collega all’eventuale ingresso diretto nella guerra contro l’Iran degli Stati Uniti. Trump sta cercando di tenere una certa distanza a livello pubblico dall’alleato e, secondo alcune interpretazioni, starebbe ancora valutando la prossima mossa. Gli scenari appaiono decisamente complessi, con le forze che stanno dietro la Casa Bianca legate a doppio filo alla lobby sionista, di cui Trump senza dubbio sente l’influenza e allo stesso tempo ne è spaventato. Non è da escludere poi una “false flag” contro gli interessi USA da attribuire all’Iran per giustificare un coinvolgimento americano nell’aggressione in corso. A questo proposito vanno probabilmente seguiti i movimenti della vecchia portaerei americana “Nimitz” in avvicinamento al Medio Oriente, assieme minaccia e bersaglio per Teheran o delle forze che spingono per un’escalation.
Netanyahu, coerentemente con le attitudini criminali e mafiose che lo contraddistinguono, ha poi avvertito sui media americani nelle scorse ore che l’Iran starebbe cercando di assassinare Trump. Una dichiarazione che suona più come una minaccia e un ricatto nei confronti del presidente americano, già oggetto di due misteriosi attentati alla sua vita durante la campagna elettorale dello scorso anno. Tutto ciò e il fatto che, come spiegato in precedenza, le azioni di USA e Israele procedono sostanzialmente in piena sintonia suggeriscono che a breve Trump potrebbe autorizzare la partecipazione del suo paese alla guerra in maniera diretta. Un’altra giustificazione sarebbe la necessità per Israele di ricorrere alle bombe perforanti (“bunker buster”), in dotazione solo degli Stati Uniti, per distruggere i siti nucleari iraniani sotto terra.
Resta il fatto che la storia militare recente racconta dell’imperativo da parte degli USA e dei suoi alleati di risolvere i conflitti armati in tempi brevi, mentre guerre di “attrito” o che implicano resistenza e risposte efficaci finiscono tutt’al più in pantani inestricabili. Mentre si osservano le ennesime scene di morte e distruzione per mano del regime sionista e dei complici americani, è possibile che a Netanyahu e Israele siano riservate a breve altre sorprese sgradite. Al di là della retorica e dell’ostentazione di forza, già il fatto che la “superpotenza” sionista abbia sentito l’urgenza di supplicare l’intervento di Washington contro l’Iran solo dopo un paio di giorni dall’inizio dell’aggressione non sembra essere un segnale incoraggiante per il regime genocida e i suoi alleati occidentali.