Dopo meno di 48 ore dal bombardamento illegale americano di tre siti nucleari iraniani, la Repubblica Islamica ha lanciato un attacco contro la più importante base militare USA in Medio Orienta, quella di Al Udeid in Qatar. La struttura era già stata evacuata e Teheran aveva avvisato in anticipo dell’operazione sia Doha sia Washington. La situazione resta estremamente fluida e ancora non si è dissolta la “nebbia della guerra” sui contorni dell’operazione ordinata da Donald Trump nelle prime ore di domenica. Quel che appare certo è che il successo “spettacolare” annunciato da quest’ultimo, sia in termini materiali sia dal punto di vista geo-strategico, resta una fantasia, mentre sarà sempre più complicato per la Casa Bianca sganciarsi dall’abbraccio mortale di Netanyahu. La palla passa ora nel campo americano, con l’amministrazione repubblicana e il regime sionista che dovranno valutare molto attentamente quali obiettivi intendono realmente raggiungere, calcolare fino a che punto saranno disposti a destabilizzare il Medio Oriente e rischiare un allargamento del conflitto, ma soprattutto quale prezzo pagare per le proprie scelte.

Molti commentatori indipendenti avevano definito l’operazione americana di domenica come una sorta di teatrino in un quadro da gioco degli specchi per sbloccare una situazione che vedeva Trump sempre più con le mani legate. L’ex ispettore ONU, Scott Ritter, è partito dalla domanda: perché il presidente americano avrebbe impiegato “le armi più sofisticate a disposizione dell’arsenale USA per bombardare tre siti iraniani vuoti?”. La minaccia che pendeva sui siti nucleari dell’Iran era infatti nota da tempo e una decina di giorni di attacchi israeliani avevano probabilmente convinto le autorità della Repubblica Islamica a trasferire altrove centrifughe, uranio arricchito e altri impianti da Fordow, Natanz e Isfahan.

Questo è quanto hanno affermato anche fonti governative iraniane e, sia da Teheran che dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) sono arrivate subito rassicurazioni sul fatto che nelle aree colpite dalle bombe americane non sono stati rilevati livelli preoccupanti di contaminazione. Sempre Scott Ritter spiega che, a suo parere, l’attacco condotto con tali modalità era teso a “limitare la ritorsione iraniana”. In particolare, Trump ha ordinato attacchi con velivoli e navi militari non operanti nelle basi USA in Medio Oriente, in teoria per evitare che l’Iran concretizzasse la minaccia di bombardare queste ultime.

Secondo questa interpretazione, Trump avrebbe dato insomma il via libera all’operazione per “salvare la faccia”, visto che si era esposto eccessivamente con una serie di minacce contro la Repubblica Islamica e, ancora di più e anche per questa ragione, era sottoposto a pressioni insostenibili da parte dei “falchi” sul fronte domestico e della ultra-influente lobby sionista. L’Iran lunedì ha invece scelto di colpire una base americana e, come già accennato, la più grande e simbolicamente importante di tutto il Medio Oriente.

Il blog Moon of Alabama cita a supporto più o meno della stessa tesi una “esclusiva” pubblicata domenica dal sito Amwaj Media, nella quale si rivela che l’amministrazione Trump aveva avvertito preventivamente l’Iran dei bombardamenti che stavano per essere condotti. Inoltre, a Teheran sarebbe stato recapitato il messaggio che si è trattato di un’operazione una tantum e che gli Stati Uniti non desiderano una guerra totale con la Repubblica Islamica. Che, d’altra parte, le bombe penetranti usate presumibilmente domenica fossero di dubbia efficacia per distruggere una struttura situata a 80 o 90 metri sottoterra lo pensavano anche dentro al governo americano, tanto che settimana scorsa la stampa USA aveva scritto che alcuni alti ufficiali del Pentagono ritenevano che questo obiettivo sarebbe stato possibile solo con l’impiego di un’arma nucleare tattica.

Per chiudere il cerchio di questa teoria, subito dopo l’attacco di domenica alcuni membri dell’amministrazione repubblicana hanno cercato di gettare acqua sul fuoco, con ogni probabilità per convincere l’Iran a non cercare un’ulteriore escalation. Il numero uno del Pentagono, Pete Hegseth, ha affermato ad esempio che Washington non è in guerra con la Repubblica Islamica e non intende forzare un “cambio di regime” a Teheran. Trump lo ha in realtà smentito quasi subito con un post sul suo social Truth, ma la consueta volubilità del presidente americano rende di fatto impossibile trarre conclusioni affidabili dalle sue dichiarazioni. Il vice-presidente, J.D. Vance, secondo notizie diffuse dai media USA contrario al bombardamento dei siti nucleari iraniani, sia pure ribadendo alcune delle assurdità già dette da Trump, ha poi anch’egli escluso di volere una guerra a tutto campo e di preferire invece la pace.

Vance aveva aggiunto che, se l’Iran si fosse astenuto dal colpire le basi USA in Medio Oriente e rinunciato una volta per tutte al programma nucleare militare, Washington e Teheran avrebbero potuto costruire “rapporti cordiali”. La scelta iraniana di procedere invece contro gli avvertimenti americani evidenzia la fermezza di Teheran e il fallimento finora delle operazioni israeliano-americane di mettere in ginocchio questo paese. Anche se sono in molti a credere che l’attacco contro la base in Qatar sia stata sostanzialmente coordinata con Doha e Washington, forse con l’assistenza russa, la portata simbolica dell’operazione resta intatta e mette in qualche modo la Repubblica Islamica in una posizione di forza in previsione di una possibile uscita concordata dalla crisi in corso.

Resta comunque la variabile israeliana e gli impulsi distruttivi del regime di Netanyahu. Questo particolare e il carattere totalmente imprevedibile della condotta americana lasciano aperti interrogativi circa i prossimi sviluppi della situazione. Insistere su questioni, come l’azzeramento dell’arricchimento dell’uranio, che erano già state superate, proprio perché respinte da un Iran che non può ovviamente accettare una resa totale, indica una volontà di provocare un’escalation da parte di Stati Uniti e Israele. Anche prendendo per buona la teoria delle armi nucleari iraniane, il fallimento nel raggiungere questo scopo dopo i bombardamenti “spettacolari” degli USA di domenica solleva la domanda su quali iniziative efficaci Washington e Tel Aviv potrebbero decidere per ottenere un simile risultato.

Per quanto riguarda il cambio di regime, di cui si parla più o meno apertamente, se qualche possibilità ci fosse di provocarlo sarebbe quasi certamente attraverso un’invasione di terra sulla linea di quella dell’Iraq nel 2003. La situazione geografica, militare, economica, politica e sociale dell’Iran non è però nemmeno lontanamente paragonabile a quella del paese di Saddam Hussein due decenni fa e, quindi, nemmeno i “falchi” più estremi in America o in Israele ritiene fattibile questa opzione. Pensare che un’intensificazione dei bombardamenti e la decapitazione dei vertici politici e istituzionali possa aprire la strada alla presa del potere di un’opposizione filo-occidentale ultra-screditata in Iran sembra essere a sua volta pura illusione. Stesso discorso vale per la “resa incondizionata”. Ragioni storiche e di orgoglio nazionale, ancora prima degli aspetti pratici e dei rapporti di forza, rendono semplicemente impossibile questo epilogo.

L’azione decisa lunedì dall’Iran è stata probabilmente coordinata con Russia e Cina. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, si era recato a Mosca già domenica per conferire con il presidente russo Putin e sul tavolo potrebbe esserci stato un rafforzamento della collaborazione tra i due paesi sul piano della difesa. Né Mosca né Pechino intendono favorire mosse che infiammino ancora di più il Medio Oriente, tanto più che il Cremlino è coinvolto con la Casa Bianca nella faticosa vicenda ucraina. Russia e Cina sanno però anche che se l’attacco all’Iran dovesse andare a buon fine, i progetti multipolari di questi anni per cambiare gli equilibri globali subirebbero una drastica battuta d’arresto.

Gli eventi di questa ore sembra così riproporre gli scenari seguiti all’assassinio nel 2020 in Iraq del comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Qassem Soleimani, da parte americana. L’Iran rispose attaccando basi USA in Iraq dopo avere avvertito preventivamente Washington e fu così evitata un’escalation. La situazione è però oggi molto più instabile e deteriorata e, soprattutto, Israele risulta quasi del tutto fuori controllo. Nei prossimi giorni si osserverà quello che potrà accadere se, come previsto, Netanyahu continuerà a bombardare l’Iran e Teheran – legittimamente – risponderà con i propri missili contro obiettivi israeliani. Di conseguenza, da Tel Aviv cresceranno le pressioni sulla Casa Bianca per un pieno coinvolgimento nel conflitto.

Gli altri fronti su cui l’Iran potrebbe muoversi a breve sono inoltre la chiusura dello stretto di Hormuz, da cui passa oltre il 20% dei traffici petroliferi globali, e l’uscita dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). Nel primo caso, il parlamento di Teheran ha già approvato una risoluzione e la decisione finale spetterà ora al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, nel quale le forze armate e i Guardiani della Rivoluzione hanno un ruolo cruciale. Questa eventuale decisione metterebbe realmente pressione su USA e Occidente, visto che manderebbe alle stelle il prezzo del greggio e provocherebbe altre conseguenze economiche disastrose. D’altro canto, proprio per questo, rischierebbe di inasprire la situazione e, oltretutto, avrebbe effetti negativi anche per l’export petrolifero iraniano, a meno che non vengano stabilite eccezioni a favore di paesi amici.

L’abbandono del TNP è infine già richiesto da molto settori in Iran e l’opzione è anche prevista dall’articolo 10 dello stesso trattato, nel caso la decisione sia giustificata da eventi straordinari che riguardano la sicurezza nazionale di un paese firmatario. La Repubblica Islamica non trae infatti nessun vantaggio dal rimanere nel trattato. Anzi, esso ha contribuito notevolmente alla minaccia contro la propria sicurezza e sovranità, visto che l’AIEA si è quasi sempre comportata da strumento nelle mani di Stati Uniti e Israele.

In definitiva, il culmine raggiunto finora dalla campagna decennale anti-iraniana ha dimostrato come i vincoli ONU, l’auto-limitazione in ambito nucleare, le aperture all’Occidente e la diplomazia, invece di incontrare la disponibilità delle controparti, hanno finito per imbrigliare la Repubblica Islamica in un ciclo auto-penalizzante, con l’avanzamento progressivo delle minacce fino alla guerra vera e propria di questi giorni. A giudicare dagli ultimi avvenimenti e considerando gli esempi storici opposti di Libia e Corea del Nord, sarebbe perciò difficilmente condannabile l’eventuale decisione della leadership iraniana di attivare un programma nucleare militare, unico vero deterrente all’aggressione in uno scenario dove a prevalere è ormai solo il principio della forza.

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