La guerra illegale di Israele e Stati Uniti contro l’Iran non ha risolto nessuno dei “problemi” alla base dell’aggressione, ma ha se possibile aggravato le preoccupazioni dei due alleati relativamente ai rapporti di forza in Medio Oriente. La resistenza e la controffensiva della Repubblica Islamica hanno infatti rovesciato la narrativa sionista e occidentale degli ultimi venti mesi, che voleva Israele padrone praticamente assoluto dei destini della regione, soprattutto dopo il crollo del governo di Assad in Siria e l’indebolimento di Hezbollah in Libano. Inebriato da questi “successi”, il premier/criminale di guerra Netanyahu riteneva di applicare la stessa formula all’Iran, ma, una volta retta l’onda d’urto iniziale e nonostante le gravi perdite subite, Teheran ha di fatto messo alle corde lo stato ebraico, costringendolo precocemente a implorare l’intervento dell’alleato americano.

È in questa chiave che va letta probabilmente la lezione più importante di un conflitto che a molti osservatori è apparso subito come un possibile elemento di rottura. All’improvviso, Israele si è scoperto non essere in nessun modo preparato, tanto meno senza il sostegno degli USA, a una “guerra di attrito” contro un nemico che non sia un paese allo sbando o un’organizzazione armata non statale. Il direttore della testata on-line Middle East Eye, David Hearst, ha spiegato infatti in un’analisi pubblicata martedì che Netanyahu ha fallito su tutta la linea nella guerra contro l’Iran.

Il suo programma nucleare è stato distrutto solo nei sogni di Trump e del primo ministro israeliano. Anche non essendo mai stato il vero problema nella crisi, l’apparato nucleare della Repubblica Islamica era e resta il pretesto agitato da Israele e Stati Uniti per giustificare politiche ultra-aggressive nei confronti di questo paese. Se, come tutte le indicazioni suggeriscono, l’uranio arricchito e gli impianti nucleari iraniani sono rimasti intatti, questa realtà rende ancora più complicata qualsiasi futura operazione che abbia come obiettivo ufficiale – ovvero a uso e consumo dell’opinione pubblica – la loro distruzione.

Tanto più che l’Iran sembra comprensibilmente intenzionato a svincolarsi dalla supervisione dell’AIEA, con una decisione che metterebbe Israele e l’Occidente all’oscuro degli obiettivi da colpire in una nuova eventuale aggressione militare. Senza informazioni precise sul posizionamento degli impianti nucleari, unica tenue giustificazione di un nuovo eventuale attacco, l’opzione militare consisterebbe solo in una raffica di bombardamenti indiscriminati, moltiplicando l’opposizione e l’indignazione internazionale già esplosa durante la guerra appena sospesa.

Identico esito hanno avuto gli altri due obiettivi di Tel Aviv e Washington, vale a dire la liquidazione dell’arsenale missilistico iraniano e il cambio di regime. Nel primo caso, Teheran ha evidenziato una certa capacità di alzare il livello dell’escalation, come dimostrano, nonostante la censura sionista, gli attacchi più devastanti portati sul territorio israeliano proprio nelle fasi immediatamente precedenti l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Sul rovesciamento del governo iraniano è invece quasi inutile soffermarsi, vista la solidità mostrata da un sistema colpito pesantemente con i raid iniziali di Israele il 13 giugno, nonché il sostanziale compattamento della società malgrado il malcontento e le divisioni striscianti.

Ciò che è apparso chiaro è quindi che Israele non è o non è più la potenza in grado di dettare gli equilibri regionali, costringendo i paesi arabi a “dimenticare” la questione palestinese, a riconoscere lo stato ebraico, normalizzandone i rapporti, e ad accettarne la superiorità. Non solo, per la sua stessa natura, Israele è evidentemente l’elemento scatenate i conflitti in Medio Oriente ed è quindi impossibile determinare un grado accettabile di stabilità se dovesse continuare a esistere in questa forma.

L’epilogo della guerra, per lo meno in questa fase, tra domenica e lunedì ha poi aperto un dilemma enorme per i regimi arabi sunniti che, dietro la retorica di facciata, continuano ad assecondare la condotta di Israele e Stati Uniti. Per questi paesi, la presenza di contingenti militari americani sui loro territori e la collaborazione di fatto con il regime sionista erano giustificate dalla certezza di essere al riparo da qualsiasi minaccia in termini di sicurezza. Il lancio di missili iraniani sulla base militare USA in Qatar, ancorché simbolica, ha invece mostrato a quale prezzo questa partnership possa essere conservata.

In un’altra analisi apparsa sul sito Asia Times si legge a questo proposito che i regnanti a “Doha e altrove stanno probabilmente riconsiderando il costo della presenza di forze USA in una regione dove le iniziative americane possono ora provocare ritorsioni dirette”, come appunto quella che ha fatto assaggiare l’Iran al Qatar lunedì sera. In altri termini, prosegue l’articolo, “l’attacco iraniano ha demolito le illusioni delle monarchie del Golfo di potere ospitare militari americani pur restando neutrali” in merito alle rivalità e ai conflitti della regione.

Un altro commentatore indipendente – Patrick Armstrong – in un recente post sul suo blog ha riassunto le “lezioni” che la breve guerra tra USA-Israele e Iran ha impartito agli osservatori e ai governi di tutto il mondo. Alcuni di questi fattori appena emersi erano peraltro già noti o di essi già si sospettava, ma gli eventi dei giorni scorsi li hanno confermati chiaramente. Secondo Armstrong, è ora assodato, tra l’altro, che “l’Iran è molto più potente di quanto molti pensavano; i sistemi di difesa aerei occidentali non sono particolarmente efficaci; i missili ipersonici [iraniani] sono invulnerabili e terrificanti; la decisione di Teheran di perseguire la strada dell’armamento basato sui missili si è rivelata vincente”.

In parallelo, sono numerosi gli interrogativi che la guerra ha sollevato. Il primo è se la leadership iraniana abbia appreso la lezione nordcoreana, ovvero se valuterà che l’unico deterrente efficace contro l’aggressione israeliano-americana non è la disponibilità a negoziare in buona fede, ma il dotarsi di armi nucleari. Poi, quali contraccolpi potrebbero esserci in Israele per via del fatto che i suoi abitanti non si sentono più protetti nello stato che, dopo l’Olocausto, doveva invece metterli per sempre al sicuro? La guerra fallita e il cessate il fuoco imposto da Trump determineranno la fine politica di Netanyahu?

Su quest’ultimo punto è interessante notare come la precoce richiesta del premier israeliano agli Stati Uniti di soccorrere il suo regime per vincere – o non perdere – la guerra contro l’Iran si sia trasformata in un boomerang. L’intervento di Trump con i bombardamenti di domenica scorsa su tre siti nucleari iraniani ha cioè vincolato Tel Aviv alle decisioni americane. Quando Trump si è trovato così esposto alle pressioni interne e internazionali, scatenate da una decisione illegale e criminale, Netanyahu non ha potuto che acconsentire all’ordine di fermare gli attacchi contro la Repubblica Islamica. Una dinamica che, secondo alcuni, potrebbe addirittura avere conseguenze sul genocidio sempre in corso a Gaza, soprattutto se si dà credito alle dichiarazioni rilasciate mercoledì da Trump circa i “progressi” diplomatici che si starebbero facendo per arrivare a una tregua.

La mancata distruzione del programma nucleare iraniano, infine, indebolisce la posizione americana in prospettiva di un rilancio delle trattative diplomatiche, in primo luogo perché la minaccia militare risulta ormai spuntata. Trattative che l’Iran dovrebbe peraltro respingere almeno per il prossimo futuro, visto che sono state utilizzate da Trump precisamente per fare abbassare la guardia a Teheran in previsione di un attacco già da tempo programmato. Il presidente Pezeshkian ha però offerto la propria disponibilità a “risolvere i problemi con gli Stati Uniti sulla base del diritto internazionale” ed è quindi possibile che la leadership iraniana resti aperta al dialogo.

Washington e Tel Aviv, tuttavia, da tempo non si sentono vincolati, nemmeno formalmente, a leggi o norme morali e qualsiasi gesto distensivo deve essere interpretato in primo luogo come un’insidia che nasconde obiettivi ostili. Il pericolo che ha corso il Medio Oriente e, con ogni probabilità, tutto il pianeta nei giorni scorsi dovrebbe in ogni caso consigliare un aggiustamento delle politiche americane e israeliane all’insegna della razionalità e dell’equilibrio.

I regimi di Trump e Netanyahu non sono e non agiscono però da entità razionali e l’unico obiettivo che intendono ottenere è la liquidazione dell’Iran come ostacolo all’egemonia mediorientale e, per quanto riguarda gli USA, fermare il consolidamento dell’alleanza con Russia e Cina. La conclusione che trarranno dalla “guerra dei 12 giorni” sarà quindi che la “minaccia” iraniana resta intatta, se non amplificata, e dovrà essere affrontata nuovamente, e in un futuro più o meno ravvicinato, con un’altra e più incisiva iniziativa militare.

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