Lo scioccante bombardamento del palazzo presidenziale e di altri edifici governativi siriani da parte di Israele nella giornata di mercoledì ha dimostrato ancora una volta come non sia possibile intrattenere rapporti paritari con lo stato ebraico, il quale, per sua natura, comprende e accetta soltanto la dipendenza, quando a essa è collegata la sua stessa esistenza, ed è il caso delle relazioni con gli Stati Uniti, o la sottomissione, a cui cerca invece di sottoporre virtualmente tutti gli altri paesi. Il nuovo regime (ex) qaedista al potere a Damasco aveva infatti obbedito agli ordini di Washington per aprire un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv, ma questa disponibilità non lo ha risparmiato dalla violenza sionista.

Le drammatiche vicende siriane, in un quadro più ampio, sono la conseguenza di uno dei crimini più macroscopici degli ultimi decenni, vale a dire la distruzione di questo paese e del governo di Assad, orchestrata da Washington, dai suoi alleati in Europa e in Medio Oriente – Israele incluso – e messa materialmente in atto da una galassia di formazioni armate fondamentaliste. La “liberazione” della Siria è sfociata ora prevedibilmente nel caos più totale, con le minoranze etniche e religiose esposte a massacri indiscriminati e, sullo sfondo, una rivalità in prospettiva dai contorni esplosivi tra Turchia e Israele, di cui i fatti di questi giorni rappresentano probabilmente soltanto le prime avvisaglie.

Il bombardamento di Damasco è arrivato dopo una settimana di pesanti scontri armati nella provincia meridionale di Suwayda tra la minoranza drusa, che qui costituisce la maggioranza degli abitanti, da una parte e tribù beduine sunnite e forze del regime dall’altra. Tutto sarebbe iniziato in seguito al rapimento di un mercante druso ad un check-point improvvisato da un gruppo di beduini. Ritorsioni e scontri a fuoco sono rapidamente seguiti, provocando centinaia di morti, in buona parte civili drusi. Una prima tregua era stata annunciata martedì, ma è crollata letteralmente poche ore dopo. Un nuovo tentativo è stato fatto poi il giorno successivo, presumibilmente con maggiore successo, visto che le forze di sicurezza del regime hanno iniziato a ritirarsi dalla provincia. La comunità drusa è però divisa e non è al momento chiaro se tutte le fazioni che la compongono saranno disposte ad accettare il cessate il fuoco.

L’intervento di Israele è formalmente giustificato dall’impegno, preso mesi fa, di difendere la comunità drusa in Siria. Credere che il regime genocida di Netanyahu abbia un minimo scrupolo di questo genere è semplicemente ridicolo, ma a livello ufficiale questa assurdità è giustificata dal fatto che in Israele vive una consistente minoranza di drusi, che spingerebbe per un intervento in difesa di quelli siriani. Comunità druse popolano anche le alture del Golan siriane occupate illegalmente da Israele, ma qui i rapporti con le autorità occupanti non sono esattamente amichevoli.

Sta di fatto che Israele ha sfruttato la questione drusa per occupare fin dal dicembre scorso, subito dopo la caduta di Assad, parti del territorio della Siria meridionale. In parallelo, Netanyahu aveva ordinato bombardamenti a tappeto sulle installazioni militari siriane, così da neutralizzare ogni possibile futura minaccia dal paese vicino. Nonostante tutto ciò, il regime del presidente siriano di fatto, Ahmed al-Sharaa, ha sempre manifestato l’intenzione di costruire relazioni cordiali con lo stato ebraico. Questa attitudine va ricondotta ai piani americani per estendere i cosiddetti “Accordi di Abramo” in Medio Oriente, nel quadro di una stabilizzazione regionale a favore dei propri interessi e di quelli israeliani, nonché in opposizione al fronte della Resistenza.

Gli obiettivi di Netanyahu, come si può osservare in questi giorni, sono tuttavia in parte diversi da quelli dell’amministrazione Trump. La Casa Bianca vedeva una Siria pacificata e unita attorno al nuovo regime (ex) qaedista, nonché sostanzialmente sotto la sfera di influenza della Turchia. Israele, invece, ritiene più funzionale ai propri interessi un paese diviso e, specificatamente per i fatti in corso, la creazione e il consolidamento di un’area cuscinetto nella parte meridionale a maggioranza drusa.

Questo piano spiega anche il motivo per cui Netanyahu abbia ritenuto necessario bombardare addirittura la sede della presidenza siriana nonostante l’obiettivo delle operazioni militari in Siria fosse la difesa della minoranza drusa nel sud del paese. È chiaro che, malgrado abbia favorito la sua ascesa, in prospettiva futura Israele ritiene il regime di al-Sharaa una possibile minaccia, viste anche le origini ultra-fondamentaliste che potrebbero prima o poi riemergere in funzione anti-sionista. Soprattutto, però, Tel Aviv paventa le implicazioni di una Siria stabilizzata sotto il controllo della Turchia. In altre parole, il rovesciamento di Assad ha aperto la competizione per la Siria, dove gli interessi e le mire strategiche di Turchia e Israele, nonché degli Stati Uniti al di sopra di entrambi, stanno progressivamente entrando in rotta di collisione.

Pochi giorni prima del riaccendersi delle violenze, l’accademico di origine iraniana Trita Parsi aveva spiegato sul sito del think tank americano Quincy Institute for Responsible Statecraft che, “mentre la distribuzione del potere sta cambiando nella regione, con l’Iran che perde terreno a favore di Israele e Turchia, l’intensificazione della rivalità tra Tel Aviv e Ankara non è una questione ipotetica ma reale. Finché Israele crede che la propria sicurezza possa essere garantita solo dal dominio militare su tutti i suoi vicini, che possono rappresentare una minaccia – ovvero quelli che hanno la capacità di esserlo indipendentemente dalle intenzioni – allora l’emergere della Turchia come potenza regionale metterà [Ankara] nel mirino” di Netanyahu.

Con le bombe di mercoledì su Damasco, Israele ha quindi mandato un messaggio chiarissimo a Erdogan, colpendo il suo burattino (ex) qaedista. Il presidente turco pensava probabilmente di potere espandere la propria influenza in Siria senza scontrarsi con Tel Aviv, visto anche che, al di là delle condanne di facciata del genocidio palestinese, non ha mai adottato provvedimenti concreti per colpire lo stato ebraico. L’approvazione delle manovre siriane da parte americana sembrava mettere ancora di più al sicuro la Turchia e il regime di al-Sharaa, ma l’iniziativa israeliana di questa settimana, peraltro non del tutto sorprendente, ha rimescolato le carte in tavola.

La palla è ora nel campo di Erdogan, che disporrebbe di strumenti concreti per rispondere a Israele, a cominciare dalla possibile stretta su commerci e forniture di armi e petrolio. Che abbia intenzione di farlo, almeno per il momento, è però molto dubbio. L’intervento e la mediazione americana potrebbero calmare forse le acque nel breve periodo, ma la logica espansionista del regime di Netanyahu e le mire neo-ottomane di Erdogan prospettano presto o tardi uno scontro inevitabile sul terreno siriano.

Questa realtà si scontra con la visione americana della Siria post-Assad. Per Trump, la riorganizzazione strategica del Medio Oriente passa dalla stabilizzazione e dalla normalizzazione dei rapporti tra i regimi arabi alleati e Israele, in uno scenario dominato da affari, forniture di armi e flusso di gas e petrolio, all’interno del quale potrebbero in teoria trovare posto anche forze estranee, come l’Iran, se disposte a piegarsi agli interessi USA. Israele punta invece al dominio assoluto tramite la forza, mentre l’apertura al dialogo (Siria) o a tregue (Libano) non esclude il ricorso ad aggressioni e violenze quando esse sono funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi. D’altra parte, il regime sionista gode della completa impunità, grazie alla copertura americana, e ha facoltà di rompere accordi, bombardare e assassinare senza nessuna conseguenza.

Per questa ragione, per Netanyahu destabilizzazione e divisioni in Siria sono molto più importanti di qualsiasi processo di normalizzazione. Anche perché, in un eventuale accordo con Damasco, se pure le alture del Golan resterebbero sotto il proprio controllo, Israele dovrebbe restituire le porzioni di territorio siriano occupate dopo la caduta di Assad. Un’ipotesi, quest’ultima, che non rientra minimamente nelle priorità del premier/criminale di guerra, il quale, con la scusa della difesa dei drusi, preferisce di gran lunga tenere un piede, anzi molto di più, in Siria per limitare l’influenza turca e lo spazio d’azione del nuovo regime di Damasco.

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