La Rivoluzione Sandinista ha compiuto 46 anni ed è bene ricordarne pensieri ed opere che la rendono un fenomeno unico al mondo. E’, prima di ogni altra cosa, un’opera di architetture politica che è stata capace di immaginare e realizzare, contro vento e maree, il più grande processo mai concepito di trasformazione del Nicaragua e per il Nicaragua. E’ una Rivoluzione ininterrotta, che nel suo incedere, frutto anche del contesto internazionale, mantiene la postura tipica di una Rivoluzione.

La politologia spesso utilizza la categoria della Rivoluzione quando si potrebbe parlare anche solo di cambiamento politico. Ma nel caso del Nicaragua il termine Rivoluzione è  adeguato. Perché è stato frutto di una guerriglia prima e di governi poi, che hanno abbattuto le strutture di potere politico ed economico precedenti ed hanno cambiato tutto quello che doveva essere cambiato: la struttura di comando, l’equilibrio dei rapporti di classe, la cultura, la mentalità diffusa, persino il senso comune del suo popolo.

La Rivoluzione dura da 46 anni perché ha permesso un cambiamento profondo, strutturale e sovrastrutturale, del Nicaragua. Perché nelle diverse condizioni il Sandinismo ha saputo far fronte all’ordinario e allo straordinario, ha saputo difendere la sacralità della sovranità nazionale, delle istituzioni, della pace e ha schiacciato il golpismo, malattia endemica ed autoimmune del latifondismo. E continua perché lo Stato non cede la sovranità alle oligarchie internazionali, anzi esercita con forza la sua funzione regolatoria e ordinativa della società. Detiene il monopolio della legiferazione, della gestione e della forza.

Il Sandinismo, nell’ambito delle dottrine politiche riferite alla sinistra, è l’unica realtà che è stata capace di vincere in due secoli differenti, attraversando il secondo e il terzo millennio. Nato come un grido di indipendenza, di sovranità nazionale e di libertà dall’invasore yanqui, dal ritorno al governo dal Gennaio 2007 ha assunto una identità politica globale, che rivela una teoria precisa dell’organizzazione politica e sociale. Pur in un clima da pensiero unico, che non ha concesso variazioni sul tema, il Sandinismo è stato capace di portare avanti il suo modello alternativo, cambiando tutto e tutti. L’ha fatto in chiave decisa, collocando al suo posto i diversi pezzi del tessuto generale del Paese.

La Rivoluzione Sandinista è stata capace di cambiare l’organizzazione sociale e rimettere ordine nelle priorità generali. E’ stata pronta a sfidare e sconfiggere i poteri forti, terreni o spirituali (per modo di dire), eliminando antiche consuetudini a paure e rassegnazione che servivano a garantire la piramide sociale. E’ diventato un modello politico complessivo che ha disegnato il Paese Nuovo. In un mondo dove l’impero unipolare ha colpito con forza ogni virgulto di autonomia, il Nicaragua ha rotto ogni legaccio, ogni storia obbligata, ogni destino già scritto. Insofferente alla mancanza di dignità, ha dato forza e significato di senso alla libertà, fornendo lezioni all’impero e ai suoi seguaci, quale che siano i nomi con cui si presentano.

Ha pagato un prezzo per questo, ovvero l’isolamento da parte della sinistra al caviale, progressista fuori e conservatrice dentro, tanto latinoamericana come europea (entrambe a trazione statunitense), che non gli perdona di voler ostinatamente privilegiare la via della lotta a quella della riconciliazione.

Ma oltre all’aspetto ideale ce n’è uno pratico. La rottura con quella che si può ben chiamare la sinistra della destra, erede indegna di ogni socialismo europeo, nasce proprio dalla promozione di un modello socio economico e da una idea delle relazioni internazionali completamente opposto al modello ancora dominante. Un modello al quale il cosiddetto progressismo di moda ha aderito con entusiasmo abbandonando la rappresentanza sociale di cui era tutore, quella dei lavoratori e dei ceti impoveriti dal neoliberismo, per abbracciare gli interessi delle élites dominanti, che ne ricompensano con briciole la fedeltà ormai a prova di tutto.

 

Il modello sfila da 18 anni

Il Sandinismo ritiene l’economia una scienza al servizio delle persone e non viceversa e il Nicaragua investe nel welfare il 52% del PIL. Sceglie come prioritaria la lotta contro la povertà e, per questa, vede necessaria la distribuzione della ricchezza prodotta sull’intera popolazione. Concepisce per la realtà nicaraguense un modello economico orizzontale e non verticale, che non si basa sulle priorità delle grandi aziende del latifondo oligarchico ma sulle imprese a carattere familiare e su quelle a dimensione piccola e media, oltre che sull’estensione del welfare a tutti i bisogni primari.

Nel modello Sandinista per lo sviluppo economico la crescita della ricchezza arriva attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, l’ottimizzazione della creazione dei suoi prodotti e l’efficientamento amministrativo della catena produttiva interna, che devono accompagnarsi agli investimenti esteri e all’accesso alle risorse internazionalmente disponibili. Ma la crescita del PIL si costruisce anche con l’aumento della domanda interna, possibile grazie alla generazione di lavoro e dunque di reddito. Un ciclo virtuoso tra chi grazie al reddito può consumare e, consumando, produce nuova domanda che a sua volta genererà nuova occupazione necessaria a soddisfarla.

Non c’è solo l’idea di quanto l’inclusione sia giusta e l’esclusione sbagliata, ma anche il convincimento che l’inclusione sia un autentico motore economico, che i dati macro non servono se non si accompagnano a quelli micro, che la crescita interna sia basata sulla ricchezza autenticamente generata e non quella che si poggia sull’attrattività per i capitali internazionale, per loro stessa natura predatori e volubili.

Insomma il Nicaragua Sandinista non è soltanto primo attore di una guerra di popolo contro la tirannide somozista e l’ingerenza secolare degli Stati Uniti, ma è anche protagonista di un generale riposizionamento ideologico, politico e programmatico che la rende un modello a tutti gli effetti, nel bene come nel male, a seconda del punto di osservazione dal quale la si guarda.

Oggi, 46 anni dopo il trionfo rivoluzionario, emerge una dimensione internazionale del Paese. E se a livello globale l’identificazione con  le esigenza del multipolarismo che dia voce al Sud globale sono assodate, su quello locale il Nicaragua è avviato da tempo ad una effettiva leadership sulla regione, non a caso ostacolata in ogni modo dalle consorterie affaristico-militari che in Guatemala, Costa Rica ed El Salvador continuano ad avere un peso determinante.

Il progetto di costruzione del Canale Interoceanico ne è esempio. Porta con se l’idea stessa di una Nicaragua proiettata verso traguardi strategici. La sua realizzazione renderebbe compiuto il processo di modernizzazione del paese. Il Canale cambierebbe in profondità il Nicaragua perché lo porterebbe al centro del sistema degli scambi che inciderebbe negli indirizzi commerciali di tutto il continente da cui ne deriverebbe un significativo peso politico.

Ci sono quindi molti motivi, sentimentali e/o razionali, per nutrire nel Nicaragua una fiducia ragionata oltre che dettata dall’affetto e dal riconoscimento alla sua storia di resistenza eroica contro il gigante del Nord. Come in tutte le epopee storiche, ci sono immagini iconiche che le rappresentano. In Nicaragua, forse la rivoluzione più fotografata del mondo, tra le tante immagini che potrebbero illustrarla nel suo fascino ancora intatto, ce n’è una, in particolare, dove c’è la sintesi del Nicaragua, l’iconografia della sua sovranità. In un solo scatto c’è tutta la sovranità politica, la disponibilità al combattimento, l’assenza della parola resa nel suo vocabolario.

Mi riferisco alla figura del soldato sandinista che trascina con una corda che gli lega le mani, il catturato dopo avergli abbattuto l’aereo che trasportava armi per la contra. Si chiamava Eugene Hasenfus ed aveva tutte le caratteristiche epidermiche e fisiche dell’impero: alto, forte, capelli ed occhi chiari. Veniva portato con le mani legate da un soldato piccolo di corporatura e dai tratti indigeni. Quella foto, manifesto dello scontro tra Washington e Managua, contiene un messaggio: giù le mani dal Nicaragua, perché arrivereste volando sulle nostre teste ma finireste strisciando ai nostri piedi.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy