La visita di sei giorni del primo ministro australiano Anthony Albanese in Cina si è conclusa qualche giorno fa con tutti i crismi del successo diplomatico, almeno secondo i suoi sostenitori che non hanno esitato a definirla un “capolavoro”. Ma dietro la facciata delle strette di mano cordiali e dei banchetti a porte chiuse con Xi Jinping si nasconde una realtà ben diversa: l'Australia si trova oggi schiacciata in una morsa geopolitica che rischia di stritolare le sue ambizioni di equilibrio tra Est e Ovest, ovvero tra il suo principale partner commerciale (Cina) e lo storico alleato militare-strategico (Stati Uniti) in un frangente storico segnato dalla competizione crescente tra le due potenze.

Il viaggio di Albanese a Pechino, Shanghai e Chengdu ha avuto infatti un sottotesto di quasi disperazione, volto a puntellare quei rapporti commerciali da cui Canberra dipende in maniera vitale, proprio mentre gli Stati Uniti di Trump alzano il tiro delle pressioni militari e strategiche in chiave anti-cinese. “Non esiste alcuna relazione tra la nostra forte dipendenza commerciale dalla Cina e la nostra alleanza militare-strategica con gli USA”, ha dichiarato Albanese ai giornalisti, continuando a invocare l'importanza del principio di “equilibrio”. Una posizione, quest’ultima, che suona tuttavia sempre più come una vera e propria illusione di fronte alle pressioni in aumento provenienti da Washington.

La prova più lampante di questo vicolo cieco è arrivata alla vigilia della partenza del primo ministro laburista, quando l'amministrazione Trump ha fatto trapelare alla stampa le sue richieste perentorie: Australia e Giappone devono impegnarsi in anticipo a mettere a disposizione i propri “asset” militari in caso di guerra USA-Cina per Taiwan. Una sorta di tentativo di sabotaggio diplomatico della visita, a cui vanno aggiunte le precedenti richieste americane di aumentare immediatamente la spesa militare australiana dal 2% al 3,5% del PIL.

Non è un caso d’altra parte che la visita di Albanese sia coincisa con l'inizio delle esercitazioni militari Talisman Sabre, le più imponenti mai organizzate sul suolo australiano. Diciannove paesi coinvolti, inclusi tutti i principali alleati di Washington, armamenti avanzati, compresi missili a lungo raggio, in quella che è apparsa come una prova generale di guerra di aggressione contro la Cina sotto la guida americana.

Nonostante la durata inusuale del viaggio del primo ministro australiano, ciò che colpisce è la natura relativamente limitata delle discussioni e l’assenza di accordi concreti significativi. Albanese ha espresso “preoccupazione” a Xi per le esercitazioni navali condotte dalla Cina nel Mar di Tasmania tra Australia e Nuova Zelanda lo scorso febbraio, manovre peraltro perfettamente legali in acque internazionali ma oggetto di una campagna isterica da parte dei commentatori filo-americani sulla stampa australiana. Albanese ha anche sollevato il caso di Yang Hengjun, autore sino-australiano imprigionato in Cina per spionaggio, un caso ambiguo in larga misura strumentalizzato per accusare Pechino di abusi in materia di “diritti umani”.

Ma molti sono stati appunto gli argomenti che Albanese ha evitato accuratamente. Ha affermato ad esempio che le richieste americane di un impegno australiano in una potenziale guerra con la Cina non sono state discusse con Xi, schivando ripetutamente il tema quando sollevato dalla stampa. Anche il nodo Taiwan – il principale punto di frizione che rischia di scatenare un conflitto, sotto la spinta del rovesciamento americano dello status quo e della promozione tacita del separatismo taiwanese – non sarebbe stato toccato.

Anche Xi e la leadership cinese sembrano non avere espresso le loro preoccupazioni circa la potenziale partecipazione dell'Australia all'accerchiamento anti-cinese. Pechino non avrebbe nemmeno sollevato con Albanese la cancellazione da parte del suo governo del contratto di locazione del Porto di Darwin detenuto da una compagnia cinese. Una mossa senza precedenti basata sulla legislazione relativa alla “sicurezza nazionale” che di fatto apre la strada alla possibile espulsione di qualsiasi investimento cinese dall’Australia.

Se c'è stato un focus nella visita, questo è stato piuttosto sui legami commerciali. Albanese era accompagnato da una folta delegazione imprenditoriale, inclusi alcuni dei principali magnati del settore minerario ed estrattivo del paese. “Il minerale di ferro rappresenta di gran lunga la nostra maggiore esportazione per valore e nella stragrande maggioranza arriva qui in Cina”, ha dichiarato il primo ministro. I numeri sono abbastanza chiari in questo senso. Nel 2023-24, il minerale di ferro ha rappresentato il 21% delle esportazioni australiane, con oltre il 75% acquistato dalla Cina. Sempre nel 2023, Pechino ha assorbito poco meno del 30% delle esportazioni australiane totali, contro appena il 12% del Giappone al secondo posto e il 6% degli USA al quarto.

Ma le acque si stanno agitando in fretta. Nel corso dell'ultimo anno, la Cina ha segnalato chiaramente la sua intenzione di “ridurre i rischi” in relazione alle importazioni di minerale di ferro, diversificando così le sue fonti di approvvigionamento. Le aziende cinesi stanno infatti costruendo un impianto di lavorazione del minerale di ferro da 12 milioni di tonnellate in Sierra Leone, mentre progetti simili sono in corso o previsti in altri paesi africani come Guinea, Liberia, Camerun e Congo-Brazzaville. Nonostante i tentativi di spingere su iniziative per il futuro come l'“acciaio verde”, Albanese è tornato a casa praticamente a mani vuote in termini di accordi concreti. Quello su cui si è concordato è, tra l’latro, una revisione del trattato bilaterale di libero scambio, la promozione in Cina del turismo verso l’Australia e un “dialogo” sulla “decarbonizzazione dell’acciaio”.

Anche questi modesti risultati sono stati oggetto di una campagna ostile da parte di settori dell'establishment legati alla della sicurezza nazionale australiana e della stampa ufficiale. Il quotidiano The Australian, di proprietà della famiglia Murdoch, ha pubblicato ad esempio una serie di commenti accusando Albanese di essere troppo “morbido” con la Cina e di essere stato raggirato dal “fascino” di Xi Jinping. Questi ambienti hanno criticato aspramente il premier per avere incontrato il leader cinese prima di essere riuscito ad assicurarsi un faccia a faccia con Trump. Il messaggio è chiaro: anche un limitato impegno diplomatico con la Cina non è più possibile nell'ottica dell'establishment atlantista.

Il capitalismo australiano si trova però di fronte a una crisi oggettiva. Non esiste infatti un'alternativa immediata alla sua pesante dipendenza dal commercio con la Cina. Mentre le tariffe doganali imposte da Trump alle esportazioni australiane sono relativamente basse al 10%, i dazi su prodotti farmaceutici e alluminio potrebbero avere comunque un impatto devastante. L'Australia, inoltre, è esposta indirettamente: qualsiasi rallentamento in Cina, obiettivo centrale della guerra economica di Trump, minaccia una riduzione importante della domanda per le proprie esportazioni.

Nel suo primo mandato, il governo laburista di Albanese aveva egli stesso avviato la trasformazione dell'Australia in uno stato di prima linea in una futura guerra contro la Cina, inclusa una vasta espansione delle basi militari USA sul proprio territorio. L'integrazione è tale che il ministro della Difesa laburista, Richard Marles, ha pubblicamente riconosciuto all'inizio di quest'anno che l'Australia sarebbe automaticamente coinvolta in qualsiasi conflitto tra gli USA e la Cina.

Ora viene chiesto tuttavia ancora di più, come dimostra l'insistenza pubblica dell'amministrazione Trump per un impegno esplicito a partecipare a una tale guerra e le pressioni per un aumento della spesa militare. Le affermazioni, promosse dai laburisti durante le elezioni, che l'Australia sia un'eccezione agli sconvolgimenti globali e possa in qualche modo restarne fuori, continuano quindi a essere smentite dall’evoluzione dei fatti.

La visita di Albanese non segna quindi un drastico reset né indica una nuova direzione nelle relazioni Australia-Cina, come qualche commentatore sostiene dopo la rielezione a sorpresa del governo laburista lo scorso mese di maggio. Essa segnala piuttosto un qualche assestamento in senso pragmatico. In un mondo sempre più complesso e multipolare, la diplomazia basata su interessi economico-commerciali reciproci piuttosto che sull'ideologia può risultare utile, ma quando gli interessi in gioco sono quelli di potenze che si preparano alla guerra, il margine di manovra si assottiglia fino a scomparire.

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