La clamorosa rottura delle relazioni diplomatiche tra Australia e Iran di questa settimana ha tutto l’aspetto di un’operazione costruita a tavolino tra il governo laburista di Canberra e gli alleati di Stati Uniti e Israele. Se si cercasse infatti una minima prova concreta delle responsabilità iraniane nei fatti che vengono attribuiti ai Guardiani della Rivoluzione o un senso logico che avrebbe motivato questi ultimi nelle loro azioni, si resterebbe fortemente delusi. La messa in scena del primo ministro, Anthony Albanese, per coprire un’operazione dei servizi segreti australiani, in collaborazione con CIA e Mossad, serve in primo luogo a calmare le acque nei rapporti tra il suo governo e il regime genocida di Netanyahu, mentre preannuncia allo stesso tempo una possibile nuova offensiva militare totalmente illegale contro la Repubblica Islamica.

Albanese, in una conferenza stampa tenuta a fianco del capo dell’intelligence australiana (ASIO), Mike Burgess, ha affermato che il governo iraniano, attraverso i Guardiani della Rivoluzione appunto, sarebbe il mandante di due attacchi “antisemiti” avvenuti sul finire dello scorso anno. I due episodi riguardano un ristorante di Sydney e una sinagoga a Melbourne, riconducibili peraltro a una serie di insoliti atti di vandalismo registrati in Australia tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025. Questi fatti erano stati subito sfruttati dal governo laburista e dai media ufficiali per denunciare il dilagare dell’odio antisemita, regolarmente collegato a qualsiasi manifestazione di condanna del genocidio palestinese per mano israeliana.

Nei mesi successivi, alcuni criminali di basso livello erano stati poi fermati in relazione agli attacchi, secondo le forze di polizia già con vari precedenti alle spalle. Questo fatto non ha impedito al governo e ai servizi segreti di rispolverare i casi e ricondurli alle operazioni di stampo terroristico che l’Iran metterebbe in atto fuori dai propri confini. L’assurdità del collegamento tra i presunti responsabili materiali e i Guardiani della Rivoluzione iraniani ha costretto il numero uno dell’ASIO ad acrobazie logiche durante la già ricordata conferenza stampa con il primo ministro Albanese. Alle richieste di chiarimenti dei giornalisti presenti, Burgess ha faticosamente risposto spiegando che i mandanti iraniani avrebbero stabilito contatti a vario livello con vari intermediari, inclusi elementi del crimine organizzato, fino ad arrivare agli autori veri e propri dei reati in questione.

L’intero teorema si regge evidentemente sul nulla. La gravità delle accuse e dei provvedimenti, esposti con toni quasi apocalittici, si è scontrata con la totale assenza di prove delle responsabilità iraniane. Né sono state fornite spiegazioni approfondite, ovviamente perché in ballo ci sarebbero le solite questioni legate alla “sicurezza nazionale” che non consentono di rivelare fonti o dettagli delle operazioni. Il pubblico, in definitiva, deve soltanto fidarsi ciecamente del governo e dei servizi di intelligence, prendendo le loro dichiarazioni come verità assoluta.

Su queste basi, Albanese ha decretato l’espulsione dell’ambasciatore iraniano a Canberra, la chiusura della rappresentanza diplomatica della Repubblica Islamica e annunciato l’introduzione di un provvedimento per aggiungere i Guardiani della Rivoluzione, ovvero un organo di primaria importanza dello stato, all’elenco delle organizzazioni terroristiche, come già hanno fatto paesi come Stati Uniti e Canada. È la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che un ambasciatore viene cacciato dall’Australia e, tradizionalmente, una misura di questo genere viene adottata in caso di guerra o in preparazione a essa.

A un’analisi anche superficiale dei fatti, la tesi della responsabilità iraniana negli attacchi di Sydney e Melbourne risulta a dir poco ridicola. Albanese ha sostenuto che, con questi atti, Teheran intendeva “minare la coesione sociale [in Australia] e seminare discordia nella nostra comunità”. Fermo restando che, con le loro politiche economiche e sociali, il suo governo e quelli che lo hanno preceduto sembrano essersi adoperati a questi scopi in maniera più efficace di qualsiasi attore esterno, è oggettivamente difficile comprendere le ragioni che l’Iran avrebbe per alimentare in questo modo le tensioni in Australia.

Ancora più problematico è spiegarne i vantaggi che ne trarrebbe. Con l’opinione pubblica in Australia, come nel resto del mondo, in larghissima misura nauseata dalla barbarie sionista e sempre più favorevole alla causa palestinese, l’attuazione di attentati terroristici contro obiettivi più o meno casuali da parte di un governo che è in prima linea sul fronte della Resistenza non ha evidentemente il minimo senso. Piuttosto, la decisione di Canberra, di comune accordo con Washington e Tel Aviv, di estrarre dal cilindro le accuse contro l’Iran in questo frangente in relazione a fatti vecchi di quasi un anno è fin troppo facilmente accostabile alle delicatissime dinamiche diplomatiche che stanno coinvolgendo la Repubblica Islamica.

Queste settimane sono infatti cruciali per la possibile reimposizione delle sanzioni internazionali a Teheran che erano state sospese dall’accordo sul nucleare del 2018 (JCPOA). Proprio questa settimana, una delegazione iraniana incontrerà a Ginevra i rappresentanti di Regno Unito, Francia e Germania per discutere nuovamente di una possibile soluzione al “file” nucleare. È superfluo aggiungere che le notizie provenienti dall’Australia non aiutano la causa iraniana e ciò è con ogni probabilità l’obiettivo di Canberra, Washington e Tel Aviv.

Le denunce di Albanese e Burgess sarebbero scaturite da indagini condotte in Australia, da cui sono derivati provvedimenti autonomi del governo di questo paese. Anche questa versione dei fatti è tuttavia inverosimile. Lo stesso capo dell’ASIO ha ammesso che i “partner stranieri” hanno contribuito all’operazione di intelligence, anche se quest’ultima definizione va riferita più a una misura presa a tavolino per screditare l’Iran che a un’investigazione vera e propria. Il regime israeliano, che agisce ormai in tutto e per tutto al di fuori della legge e della morale, non ha d’altra parte avuto il minimo scrupolo nell’ostentare il ruolo del premier/criminale di guerra Netanyahu nello spingere il premier Albanese a rompere con Teheran.

Un portavoce del regime sionista ha di fatto rivendicato il merito della decisione di Albanese, a suo dire conseguenza diretta dell’intervento pubblico di Netanyahu di settimana scorsa, quando aveva attaccato il premier australiano, responsabile di avere promesso di riconoscere lo stato palestinese. Netanyahu aveva definito Albanese un “leader debole”, invitandolo poi in maniera non meglio specificata ad agire contro l’antisemitismo nel suo paese entro la fine di settembre. Per il portavoce di Netanyahu, l’espulsione dell’ambasciatore iraniano è il “risultato molto positivo” dell’intervento del premier genocida.

In tutti i casi, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Canberra serve a placare l’ira di Israele per le posizioni solo superficialmente pro-Palestina del premier Albanese e in seguito alle massicce manifestazioni di protesta contro il genocidio organizzate recentemente in Australia. La docilità con cui Albanese ha agito la dice quindi lunga, al di là delle dichiarazioni di facciata, sulla sua reale disposizione in merito all’eccidio palestinese in corso. Gli ultimi sviluppi confermano anzi la determinazione del governo laburista nel continuare a equiparare le denunce dei crimini di Israele all’antisemitismo, come avviene virtualmente in tutti i paesi occidentali, così da mettere di fatto al riparo Netanyahu e il suo sanguinoso regime da qualsiasi conseguenza per le mostruosità di cui è responsabile a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Siria e nello Yemen.

Da ultimo, sfruttando episodi vandalici poco chiari e relativamente trascurabili, Albanese ratifica anche la partecipazione del suo governo alla campagna di demonizzazione dell’Iran, contribuendo a creare le condizioni politiche per una nuova aggressione militare da parte di USA e Israele, dopo quella dello scorso mese di giugno che aveva trascinato il Medio Oriente sull’orlo di una conflagrazione generale.

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