Il toto-Quirinale è cominciato e stavolta sembra ancora più inutile del solito. Per tradizione, due-tre mesi prima dell’elezione del Capo dello Stato inizia a roteare una girandola di nomi il cui unico scopo è nascondere le reali intenzioni dei partiti. Quasi sempre, infatti, far circolare un nome sui giornali equivale a depennarlo dalla lista dei papabili.

 

In parte il rituale si sta ripetendo come sempre. Sorvoliamo sulle velleità senili di Silvio Berlusconi, che nessuno prende sul serio e nessuno stronca, chi per servilismo chi per pietà. L’altro nome emerso e subito evaporato è stato quello di Paolo Gentiloni, ex premier Pd del tutto in-votabile per il centrodestra. Con ancora meno senso della realtà (ma con più ironia) qualcuno ha pronunciato anche le due parole magiche: Giuliano Amato. Oltre alla controversa pensione multipla di cui gode e al prelievo forzoso sui conti correnti che varò 30 anni fa, l’ex presidente del Consiglio Dc vanta anche un altro primato: negli ultimi decenni il suo nome è stato accostato circa un milione di volte a qualsiasi carica elettiva (Quirinale compreso), tanto che su Facebook è nata una pagina satirica dal nome “L’ipotesi Amato”.

Abbandoniamo ora la fantasia. Il punto è che quest’anno il toto-Colle risulta stucchevole come mai prima d’ora per una ragione semplice: sanno tutti benissimo che, se Mario Draghi si dicesse disponibile, verrebbe eletto in un amen. E perché mai il capo del governo non dovrebbe nutrire quest’ambizione? Alcuni sospettano che l’ascesa quirinalizia fosse implicita nel biglietto d’ingresso a Palazzo Chigi: un’ipotesi verosimile (anzi, probabile), ma anche impossibile da dimostrare e quindi oziosa.

Vale invece la pena di analizzare le ragioni di chi sostiene la tesi opposta. È opinione diffusa che Draghi non possa diventare Presidente della Repubblica perché, senza di lui, la maggioranza si sfalderebbe e il Paese precipiterebbe verso le urne. Questo ragionamento non tiene conto di due fattori.

Innanzitutto, l’unico partito a volere le elezioni è Fratelli d’Italia, ansioso d’incassare il dividendo garantito dall’opposizione solitaria. Tutti gli altri hanno buone ragioni per non anticipare l’appuntamento elettorale: il Movimento 5 Stelle è in pezzi e, rispetto a tre anni fa, ha perso oltre la metà dei consensi; la Lega deve risolvere la spaccatura tra massimalisti salviniani ed europeisti giorgettiani, per poi tentare la rimonta nel centrodestra, sempre più a trazione meloniana; il Pd ha trionfato alle amministrative, ma non sa ancora cosa vuole fare né con chi: sa solo che, in caso di politiche nel 2022, la sconfitta sarebbe inevitabile. Forza Italia e Italia Viva, invece, sono a rischio estinzione.

Bisogna poi considerare l’attaccamento alla poltrona dei parlamentari: se il governo cadesse, molti di loro non maturerebbero il diritto alla pensione e non potrebbero nemmeno sperare di essere rieletti, perché al prossimo giro di giostra il numero di deputati e senatori sarà dimezzato.

Un altro argomento di chi sostiene l’insostituibilità di Draghi a Palazzo Chigi è il volere dell’Europa e dei mercati. Senza SuperMario - è la tesi - il nostro Paese non sarebbe in grado di mantenere gli impegni presi con il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Addio riforme, addio aiuti europei, bentornato spread.

Anche questa visione rischia di avere poco senso, considerato il disegno che va apparecchiandosi. Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, infatti, si farà quasi sicuramente sostituire alla guida dell’Esecutivo da un suo uomo fiducia, ovvero l’attuale ministro dell’Economia, Daniele Franco, un tecnico più che benvisto da Bruxelles.

A quel punto il problema sarebbe un altro: è praticamente certo che, da Capo dello Stato, Draghi non eserciterebbe solo un ruolo di garanzia e rappresentanza, ma continuerebbe a dettare l’agenda del governo e l’indirizzo politico del Parlamento. Così, senza passare per le noiose lungaggini di una riforma costituzionale, ci trasformeremmo de facto in una Repubblica presidenziale.   

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