di Fabrizio Casari

E’ finita com'era inevitabile, viste le premesse. L’Italia è fuori dal mondiale sudafricano. Anche l’ultima partita, quella decisiva per il passaggio  agli ottavi, ha mostrato tutta l’insipienza di una squadra costruita sull’arroganza e la presunzione del proprio allenatore.La Slovacchia, non certo uno spauracchio calcistico, ha giocato la sua onesta partita limitandosi a proporre le uniche armi che aveva a disposizione: la forza fisica e la velocità. Arrivavano prima su ogni pallone e non temevano i contrasti. Tanto è bastato per rifilarci tre gol e mandarci in albergo a fare le valigie. Non li avevano mai fatti a nessuno tre gol, forse nemmeno in allenamento. Siamo noi a dargli questa gioia. Il girone più semplice del torneo ci vede ultimi.

D’altra parte il valore assoluto degli azzurri era già emerso sia nelle amichevoli che hanno preceduto il torneo, sia nelle due precedenti partite con Paraguay e Nuova Zelanda, non certo scuole calcistiche di primo livello. La squadra di Lippi non ha mai mostrato un gioco, un’idea di calcio, una qualità singola e corale. La difesa sembra la banda del buco e solo grazie all’imprecisione slovacca non abbiamo subìto un passivo umiliante.

Sui gol Marchetti può fare poco, ma anche quel poco non lo fa. Su quattro conclusioni verso la nostra porta, tre diventano gol. Ad eccezione di Pirlo, entrato nel secondo tempo, che ha provato a ridare un minimo d’ordine e di geometrie, quella vista contro la Slovacchia è stata una squadra non in grado di costruire una filiera di almeno tre passaggi, meno che mai, quindi, di garantire il possesso palla necessario per far correre gli avversari e scardinarne l’assetto. Privi d’idee e privi anche di piedi buoni, raramente qualcuno arriva in zona tiro. Incapace di verticalizzare e di svariare sulle fasce, incapace anche di tenere le distanze tra i reparti, l’Italia ha sfornato un campionario di lanci lunghi quanto imprecisi ma, soprattutto, priva di brillantezza: si è rivelata priva di energie fisiche e con solo quelle nervose - che pure ha mostrato insieme alla voglia di provarci - non si va lontano.

Il Sudafrica ha certamente denunciato i limiti degli azzurri. Cannavaro è stato forse il peggiore di tutto il mondiale e Marchetti, Criscito, Iaquinta, Pepe, Maggio, Marchisio, Di Natale e Gilardino non sono apparsi in grado di proporsi su scenari diversi dal campionato italiano, mentre De Rossi, Chiellini, Zambrotta, Quagliarella e Montolivo non sono stati all’altezza delle aspettative. Ma sbaglierebbe chi volesse infilare l’intero movimento calcistico italiano in questa nuova Corea. La responsabilità di quest’assemblaggio - perché di questo si parla quando si mettono in campo giocatori senza un gioco - è interamente di Marcello Lippi e dei dirigenti della Federazione.

Il primo ha mostrato, con la consueta arroganza e superbia, il disprezzo verso le indicazioni che il campionato forniva. Ha lasciato a casa la maggior parte dei giocatori italiani che più avevano dato prova di qualità durante la stagione appena conclusa, mettendo invece in campo giocatori come Iaquinta che ha giocato un mese in tutto il campionato e Gilardino, che non segna un gol da 4 mesi, quale che sia la maglia che indossa.

Sono rimasti a casa tutti i giocatori che avrebbero potuto dare un volto completamente diverso alle partite. Niente Totti, Cassano, Balotelli, Thiago Motta, Perrotta, e infortunati Ranocchia e Santon, in Sudafrica sono andati quelli che Lippi ha voluto non per valore, ma per fedeltà a lui e al clan che ha governato lo spogliatoio. Sono così rimasti a casa quelli che non sono simpatici (preferiamo limitarci a questo) all’allenatore, che ha ritenuto di disporre della nazionale di calcio come fosse un suo bene privato.

La Federazione, invece, con l’inutile Abete, non ha ritenuto durante i mesi passati, quando Lippi dava mostra di tutta la sua arroganza ribadendo che avrebbe portato solo quelli che voleva lui, di fermarlo e richiamarlo ad una maggiore condivisione nelle scelte. La Federazione ha avallato scelte, comportamenti e polemiche del Ct, che ora, quattro anni dopo il trionfo di Berlino, ritrova la sua dimensione. Che lo fece vincere nella Juve della triade e lo vide fallire nell’Inter di Moratti, per motivi identici, probabilmente.

Un allenatore che ha usato la nazionale come un taxi, scendendovi e salendoci a piacimento e che ha distribuito fastidio e insofferenza per ogni opinione che non fosse l’estratto dei suoi desideri, che ha atteso per un anno la naturalizzazione di un Amauri impresentabile per ignorare invece gli oriundi di livello. Nelle dichiarazioni del post-pertita Lippi si è assunto le sue responsabilità, ma davvero nessuno pensava che fossero di qualcun altro. Per la prima volta, l’Italia esce da un mondiale senza aver vinto nemmeno una partita. Da oggi, il sinonimo di fallimento del calcio italiano non sarà più la Corea di Fabbri, ma la Slovacchia di Lippi.

Ora tocca a Prandelli. Dovrà costruire un gruppo di giovani miscelandolo con quelli come Pirlo, De Rossi, forse ancora Buffon, Pazzini e Quagliarella che ancora possono dire e dare molto ai colori azzurri. Gli innesti dei giovani, da Ranocchia a Santon, da Bonucci a Balotelli, con l’affiancamento di Thiago Motta e Cassano, saranno i primi, obbligati passi per avvicinarci agli europei. Due anni sono sufficienti per costruire anima e corpo di una squadra in grado di dire la sua sui campi. Auguri.

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