La Svezia non è esistita, ma l’Italia non è bastata. Dopo il 1958, per la seconda volta nella storia del calcio la nostra nazionale manca la qualificazione alla fase finale di un Mondiale. A condannare gli azzurri è un surreale pareggio per 0-0 nella cornice di un San Siro indemoniato, dove non segnare sembrava impossibile. Decide la doppia sfida un solo tiraccio sporco ma vincente nella gara di andata, deviato nella porta di Buffon da De Rossi.

Non è mancata la voglia ai nostri calciatori, né l’impegno. È mancata la sicurezza, il coraggio e soprattutto un’idea di gioco. Nei prossimi giorni le definizioni altisonanti di questa disfatta si sprecheranno e inevitabilmente a finire sul patibolo sarà un uomo solo: Giampiero Ventura.



Il ct azzurro a questo punto deve fare le valigie. Troppo evidente la sua inadeguatezza al ruolo che era chiamato a ricoprire. Troppo palese la sua mancanza di autorevolezza all’interno di uno spogliatoio zeppo di giocatori con carriere di livello molto più alto della sua. Troppo chiara la sua incapacità di infondere alla squadra una seppur minima identità.

Tutto questo è risultato evidente fin dalla lettura delle formazioni. Gli 11 mandati in campo da Ventura sono sembrati a tutti una forma di preghiera più che il frutto di un piano tattico. Incredibile vedere in campo una squadra inedita in una delle partite più importanti della storia recente, con Jorginho e Gabbiadini in campo dal primo minuto.

Certo, fosse andata bene ora staremmo qui a esaltare il “coraggio” del nostro commissario tecnico. Ma le sue sono state e rimangono scelte dettate dalla disperazione. A onor del vero, non sono nemmeno state sbagliate: Jorginho, in particolare, ha giocato talmente meglio di Verratti che viene da chiedersi per quale motivo non lo si vedesse con la maglia azzurra da un’era geologica.

Nel primo tempo di San Siro la nazionale ha anche giocato bene, ma non è mai riuscita a rendersi davvero pericolosa, soprattutto per il filotto di cross sbagliati dagli esterni, Candreva e Darmian, i peggiori in campo. Poi, con il passare dei minuti, la rabbia iniziale si è trasformata in paura, angoscia, precipitazione. La palla stazionava per un’infinità fra i piedi dei difensori e non appena, in un modo o nell’altro, i nostri riuscivano ad arrivare sulla tre quarti, invece di cercare l’uno contro uno o una combinazione con un compagno tornavano indietro.

Indietro, sempre indietro. A ricominciare l’azione 100 volte prima che a qualcuno venisse in mente di sparacchiare un’apertura più o meno sensata o promettente. Giocando così, probabilmente, non saremmo riusciti a segnare alla Svezia nemmeno in cinque partite.

Non possiamo attaccarci nemmeno alle mancanze dell’arbitro, che dopo pochi minuti dall’inizio non vede un evidente fallo da rigore su Parolo. Prima dell’intervallo i nostri avversari recriminano per due falli di mano in area da parte dei nostri, probabilmente a ragione.

Il punto è un altro: non abbiamo segnato. Né ieri né venerdì. Non solo non abbiamo battuto la Svezia, squadra modestissima. Non le abbiamo fatto nemmeno un gol in 180 minuti. Eppure gli spazi c’erano e all’Italia il potenziale offensivo non manca di certo. La sfortuna non basta come giustificazione: dobbiamo prendere atto che non abbiamo meritato di andare in Russia.

Non sembrava possibile, ma dopo le ultime due edizioni dei Mondiali, che ci hanno visto uscire ai gironi, stavolta siamo riusciti a fare peggio. Come se la sbornia di Germania 2006 non fosse mai passata. E meno male che c’è stata, almeno quella.

A questo punto non resta che sperare nella palingenesi. Che questa figuraccia storica e bruciante serva almeno a rendere manifesta l’urgenza di una rivoluzione ai vertici del calcio italiano, in mano a gente incompetente e imbarazzante. Da dove siamo adesso, in effetti, si può solo risalire.

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