Questo commissariamento non s’ha da fare. Dopo aver tuonato per giorni quale novello Girolamo Savonarola del pallone, mercoledì sera il presidente del Coni, Giovanni Malagò, esce dalla giunta straordinaria con in mano una pistola scarica.

“La posizione della giunta è chiara: ci vuole il commissariamento – spiega – ma le regole non ci permettono di farlo. Se avessimo commissariato il calcio qualcuno avrebbe fatto, e probabilmente vinto, il ricorso. Io non posso esporre il Coni e la Giunta a questo rischio”.

Tanto rumore per nulla, dunque. Ma visto che le regole non permettono il commissariamento, come mai il buon Malagò ha passato le ultime serate fra un’intervista e l’altra dissertando sulla necessità del provvedimento? Dobbiamo pensare che il presidente del Coni non conosca le regole?

No, è chiaro. Si tratta di politica. Vituperare Tavecchio mentre si è comodamente seduti sulla poltrona di Fabio Fazio, nella più granitica certezza che mai e poi mai dall’intervistatore arriveranno le domande giuste, è il più facile degli sport. Una vera pacchia per Malagò, che si autocelebra come il Luke Sky Walker dell’Acqua Acetosa in lotta contro il Dart Fener brianzolo. Come se nessuno conoscesse le condizioni miserevoli in cui versano i conti del Coni. Come se nessuno avesse notato la crisi dell’Italia in una sfilza di sport olimpici in cui abbiamo un passato glorioso.

Certo, Tavecchio è un personaggio impresentabile. Negli ultimi anni ha imbarazzato tutto il movimento con sparate razziste, sessiste, antisemite o – più semplicemente – imbecilli. È uno che non vorresti nemmeno come amministratore di condominio, ma è stato ugualmente eletto a capo della Figc.

Proprio di questo ci si scorda con troppa facilità: chi ha messo Tavecchio su quella poltrona che non avrebbe dovuto vedere nemmeno con il telescopio? Chi ce lo ha tenuto così a lungo? Pensare che basti rimuovere il vertice per arrivare a una palingenesi del calcio è assai ingenuo, ma molto italiano.

Uguale e contrario alla nostra inclinazione amorosa nei confronti dell’uomo forte, del risolutore senza macchia che arriva e come un deus ex machina risolve la situazione. Qualcuno si ricorda come fu accolto Mario Monti quando si insediò a Palazzo Chigi dopo Berlusconi?

Ecco, con Tavecchio il meccanismo è identico, ma invertito. Cacciato lui e cacciato Ventura, si pensa, avremo una chance di tornare ai fasti di Dortmund, quando bastava un terzino del Palermo per abbattere la Germania e mandarci in paradiso.

A ben vedere, però, non funziona così. Il commissariamento non si può fare, perciò Tavecchio resterà in sella quale presidente dimissionario, cioè con il potere di gestire solo l’ordinaria amministrazione e l’obbligo di convocare l’Assemblea per nuove elezioni entro 90 giorni.

Nel frattempo le Leghe di A e di B – che, ricordiamo, al momento sono commissariate – rinnoveranno le loro cariche e rientreranno con i propri rappresentanti in Consiglio federale.

Dopo di che, in prima fila per la successione a Tavecchio dovrebbe esserci l’attuale vicepresidente, Cosimo Sibilia, che potrebbe contare sull’appoggio di Lega Dilettanti, Lega Pro e Associazione calciatori. Il tutto senza che nessuno osi non tanto scalfire, ma nemmeno mettere in discussione il groviglio d’interessi politico-economici responsabile delle guerre fratricide all’interno della Figc. Di sicuro, sostituire un uomo solo non basterà. Non basta mai, nemmeno quando si parla di pallone.

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