Si ferma ai quarti di finale l’avventura italiana ai mondiali di calcio femminile. Le azzurre escono battute 2-0 dall’Olanda, una squadra più forte sotto tutti i punti di vista, anche perché nel loro Paese il gioco del pallone praticato dalle donne è una realtà affermata ormai da anni.

 

Le nostre ragazze tornano a casa comunque a testa alta, forse con qualche rimpianto per un paio di occasioni sprecate nel primo tempo, terminato 0-0, e per la decisione scellerata degli organizzatori di far giocare l’incontro alle 15, con un caldo taglia-gambe. In condizioni meno sfavorevoli, può darsi che il divario atletico con le olandesi – evidente nel secondo tempo di sabato – sarebbe stato meno decisivo. Ma, in fondo, c’è la sensazione che sia giusto così: a condannarci sono stati due colpi di testa imprendibili di due ragazze altissime, immarcabili per molte delle nostre.

 

Ora che è tutto finito non c’è tempo da perdere. Smaltita la sbornia di retorica, le ultime due settimane non devono trasformarsi in un bel ricordo, ma nell’inizio di una nuova fase. Questo Mondiale ci ha dimostrato che il calcio femminile deve essere preso seriamente dalla Lega, dalle scuole calcio e da chi fa i palinsesti televisivi. E non solo in nome di un astratto egualitarismo – che pure sarebbe sufficiente – ma perché è uno spettacolo che ha dimostrato di saper appassionare tutti, picconando uno dei bastioni più resistenti del machismo all’italiana: il pallone.

 

In questo senso, non è esagerato parlare di contributo al progresso civile del Paese. O, perlomeno, di resistenza alla deriva sessista, visti gli insulti miserabili che gli italiani sono ancora in grado di produrre appena incontrano una figura femminile minimamente controversa (l’ultimo esempio è Carola Rackete).

 

Certo, sarebbe ipocrita dire che non ci siano differenze rispetto al calcio maschile: la velocità di gioco non può essere la stessa, ma è ovvio, com’è ovvio che nessuna donna potrà mai battere il record di Bolt sui 100 metri. L’anatomia è diversa perché risponde a esigenze diverse. Si tratta di un principio evolutivo davvero semplice: forse, con un piccolo sforzo, potrebbero comprenderlo perfino gli articolisti del Giornale e del Foglio che nei giorni scorsi si sono prodotti in commenti farneticanti, patacche da far vergognare chiunque non creda di vivere nel Concilio di Trento.

 

Quello che il calcio perde in termini di spettacolarità nella sua declinazione al femminile, si compensa su altri fronti. A cominciare dall’agonismo e da un senso dello sport non ancora intaccato dallo showbusiness. Niente simulatori incalliti, niente ragazzini viziati e sbruffoni, niente piagnistei in sala stampa. Solo gente che gioca a calcio. Ed era pure ora.

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